Il referendum contro il Jobs Act si potrebbe fare solo nel 2025

È stato proposto dalla Cgil e a Schlein sembra piacere, ma indire la consultazione presenta una serie di ostacoli
Ansa
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Tra i partiti di opposizione si discute da qualche giorno della possibilità di raccogliere le firme per un referendum contro il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro approvata dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016.

Al netto delle posizioni politiche, però, indire una consultazione popolare su un tema vasto come il Jobs Act presenta una serie di difficoltà oggettive: nel migliore dei casi infatti i cittadini dovranno aspettare almeno fino al 2025 prima di poter votare l’abrogazione della riforma.

Landini, Schlein e Renzi

L’idea di un referendum sul Jobs Act è stata lanciata il 27 agosto dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini in un’intervista con il Quotidiano Nazionale. «Se governo e Parlamento non intervengono» sul tema della precarietà, ha detto Landini, la Cgil potrebbe «prendere in considerazione uno strumento che i cittadini hanno: quello di fare un referendum per abrogare quelle leggi folli, compreso, evidentemente, il Jobs Act».  

Tre giorni dopo l’intervista di Landini,  durante un festival in Toscana la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha appoggiato l’iniziativa, affermando di essere «sempre stata contraria al Jobs Act» e che il suo partito seguirà «le iniziative della Cgil». Le parole di Schlein hanno generato da subito una certa polemica, dentro e fuori il Partito Democratico. Il primo a rispondere è stato proprio il leader di Italia Viva Matteo Renzi, autore della riforma in questione, che ha scritto su X che «chi critica il Jobs Act non lo ha nemmeno letto», “sfidando” inoltre Schlein a tenere «un dibattito pubblico sulla legge su cui lei vuol fare un referendum abrogativo». 

Anche all’interno del PD non sono mancate le voci scettiche, quando non espressamente contrarie, sul referendum. La responsabile del dipartimento economia e lavoro del PD Maria Cecilia Guerra, per esempio, ha chiarito che al momento «non c’è una proposta tecnica definita», mentre secondo il senatore Alessandro Alfieri, vicino all’area riformista di Stefano Bonaccini, il tentativo di abrogare il Jobs Act è «una battaglia di retroguardia» e il Partito Democratico «dovrebbe guardare avanti». 

Fuori dal PD, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha appoggiato in maniera piuttosto netta la proposta di Landini, definendo l’eventuale referendum «un fatto positivo che va sostenuto», al contrario del Jobs Act, che per l’ex presidente del Consiglio «è stato una sciagura per il nostro Paese».

Le difficoltà del referendum

Nonostante il dibattito intorno alla vicenda, va detto che quella di Landini rimane per ora solo una suggestione. Anche se una proposta referendaria dovesse essere scritta nei prossimi giorni, potrebbe volerci parecchio tempo prima che i cittadini possano recarsi alle urne.

Facciamo un breve riassunto su come si organizza un referendum nel nostro Paese. L’articolo 75 della Costituzione italiana stabilisce che un referendum popolare può essere indetto «per deliberare l’abrogazione, totale o parziale» di una legge. La richiesta deve essere sottoscritta da almeno 500 mila elettori o, in alternativa, da almeno cinque Consigli regionali. Il funzionamento specifico dei referendum è poi definito dalla legge n. 352 del 25 maggio 1970.

In breve l’iter si svolge in questo modo. I promotori, dopo aver comunicato formalmente il quesito alla cancelleria della Corte di Cassazione, devono raccogliere le 500 mila firme utili alla presentazione della richiesta referendaria. Tutte le firme devono essere raccolte entro 90 giorni dalla comunicazione alla Corte di Cassazione e, una volta raggiunta la soglia minima, le firme validate vengono consegnate alla Corte di Cassazione stessa in un periodo compreso tra il 1° gennaio e il 30 settembre.

Scaduto il termine del 30 settembre, la Corte di Cassazione passa in rassegna le richieste di referendum ricevute per assicurarsi che siano conformi alla legge (per esempio se la raccolta delle sottoscrizioni popolari o l’approvazione delle deliberazioni regionali è avvenuta in modo legittimo, o se il loro numero è sufficiente). In seguito il testo passa alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere sull’ammissibilità dei quesiti ricevuti entro il 10 febbraio successivo.

A quel punto il presidente della Repubblica, «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale» e «su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indice il referendum, fissando la data di convocazione degli elettori «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». 

Ricapitolando: un referendum non si può mai svolgere nello stesso anno in cui vengono raccolte le firme per legittimarlo. La raccolta e il deposito delle firme si svolgono in un periodo di tre mesi compreso tra il 1° gennaio e il 30 settembre, e i cittadini saranno convocati tra il 15 aprile e il 15 giugno dell’anno successivo.

È dunque molto improbabile che una raccolta firme contro il Jobs Act possa essere organizzata nel 2023, dato che al momento il quesito referendario non è ancora stato presentato e il traguardo delle 500 mila firme appare quasi impossibile da raggiungere entro il 30 settembre. Non è chiaro se e come la Cgil voglia iniziare una raccolta firme vera e propria, ma in ogni caso questa dovrà slittare al 2024, e l’eventuale referendum si dovrebbe quindi svolgere nel periodo tra aprile e giugno del 2025.

Tentativi falliti

Oltre ai limiti sulle tempistiche, fare un referendum sul Jobs Act è difficile per questioni che riguardano la scrittura dello stesso quesito referendario.

Un referendum abrogativo è uno strumento che punta a eliminare, del tutto o in parte, una serie di leggi in vigore, in cui chi vota “sì” è favorevole alla cancellazione, totale o parziale, delle norme oggetto dei quesiti, mentre chi vota “no” è contrario alle modifiche proposte, e vuole quindi che le leggi oggetto di referendum non vengano cambiate. In questo modo, quindi, per funzionare un referendum abrogativo deve puntare a cancellare una legge precisa (o parte di essa), e questo al momento non sembra essere il caso del Jobs Act, che anzi è il termine con cui viene indicata un’ampia serie di riforme fatte dal governo Renzi nell’arco di due anni.

In breve l’obiettivo principale del Jobs Act era quello di raggiungere una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro per far crescere l’occupazione del nostro Paese. Tra le altre cose, il Jobs Act ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma ha anche eliminato la possibilità di reintegrare un lavoratore licenziato per motivi economici, sostituendola con il pagamento di un indennizzo: queste misure non sono quindi contenute in un unico testo e non possono essere abrogate in un unico quesito referendario.

Tra l’altro, non è la prima volta che la Cgil propone un referendum sul tema: già a gennaio 2017 il sindacato aveva proposto di abrogare le modifiche apportate dal Jobs Act allo Statuto dei lavoratori e a reintrodurre i limiti per i licenziamenti senza giusta causa, ricevendo però un giudizio di inammissibilità da parte della Corte Costituzionale.

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