Tutti i luoghi comuni sulle ondate di Covid-19, smontati uno per uno

Ansa
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In queste settimane l’Italia è investita da una nuova ondata di contagi di Covid-19. Il sistema sanitario sta tornando sotto pressione, mentre il governo ha deciso di introdurre ulteriori restrizioni per i non vaccinati.

Ogni volta che nel nostro Paese l’epidemia torna a peggiorare, riprendono anche a circolare diversi luoghi comuni, sistematicamente smentiti dai numeri e dagli studi scientifici.

«Troviamo più contagi perché facciamo più test»

Quando i nuovi casi aumentano, spesso si sente dire che questa dinamica sia solo dovuta al maggior numero di test fatti, con l’emersione di contagi prima non rilevati. Ma non è così.

Negli ultimi due anni la capacità del nostro Paese di fare test in effetti è aumentata parecchio: durante la prima ondata si conducevano in media al massimo 30 mila test al giorno, nella seconda ondata oltre 200 mila al giorno, nella terza 300 mila e nella quarta ondata oltre 900 mila al giorno, con picchi giornalieri di 1,2 milioni. La stragrande maggioranza di questi test sono antigenici: sebbene meno precisi dei tamponi molecolari, questi test hanno comunque reso più semplice individuare i nuovi contagiati.

Ma il motivo fondamentale per cui si fanno tanti test resta il fatto che c’è una maggiore circolazione del virus: ad ogni ondata c’è infatti sempre stato un forte aumento del tasso di positività, ossia il rapporto tra il numero dei positivi e quello dei test fatti. Nella prima ondata il tasso di positività era arrivato al 25 per cento, nella seconda ha superato il 16 per cento, nella terza il 13 per cento e attualmente è al 16 per cento. Il tasso di positività dei soli tamponi molecolari è ora al 25 per cento, una percentuale che non si toccava dalla prima ondata.

L’aumento del tasso di positività indica che a parità di test fatti si trovano più positivi. Dunque si stanno trovando più casi non perché semplicemente si fanno più tamponi, ma perché il virus sta circolando di più nella popolazione. Se fosse solo una questione legata al maggior numero di test, si dovrebbe avere un calo del tasso di positività. Ma fino ad oggi i dati italiani hanno mostrato che a ogni ondata il sistema di testing non è riuscito a tenere il passo con l’andamento dei casi, di fatto saturandosi.

«Non ha senso testare gli asintomatici»

Nelle ultime settimane le regioni sono tornate a chiedere al governo di sospendere i test per chi non presenta sintomi della Covid-19. Una richiesta molto simile era già stata fatta nella seconda ondata e la stessa posizione era stata presa dal Ministero della Salute agli inizi della prima ondata.

Non testare gli asintomatici, però, rischia di affossare i tentativi di contenere la diffusione, o almeno di rallentarla. Una persona infetta che non presenta sintomi e non si isola può infatti contagiare altre persone inconsapevolmente. A dicembre 2021 una ricerca basata su quasi un centinaio di studi ha stimato che il 40 per cento delle infezioni confermate sono asintomatiche. Questo dato è molto probabilmente aumentato con la diffusione dei vaccini: questi ultimi hanno avuto un impatto nel ridurre la diffusione del virus, ma hanno anche reso più lieve il decorso dell’infezione, facendo sì che una persona non si accorga di essere infetta.

Inoltre, già prima dell’arrivo dei vaccini la maggioranza delle infezioni avveniva attraverso le persone asintomatiche o pre-sintomatiche (ossia nella fase prima di manifestare i sintomi).

«È solo un’influenza»

La Covid-19 è stata spesso paragonata all’influenza, ma si tratta di un confronto improprio e riduttivo. Addirittura nelle ultime settimane è stato fatto il paragone con il raffreddore, visti i casi più lievi registrati con la variante omicron, soprattutto tra le persone vaccinate. Ma anche qui il rischio è quello di far passare un messaggio fuorviante.

In un Paese come l’Italia, la letalità plausibile dell’influenza (ossia la proporzione di decessi sul numero di tutti i contagi totali, considerando anche i casi non diagnosticati) è pari allo 0,06 circa. Quella della Covid-19, causata dalla variante originaria del coronavirus, era tra l’1 e l’1,4 per cento. Bisogna sempre tenere a mente che più la popolazione di un Paese è anziana, più i tassi di letalità aumentano. Il tasso di letalità del coronavirus, prima dell’arrivo dei vaccini, era superiore di venti volte a quello dell’influenza per le persone sopra i 60 anni e tra le 6 e le 10 volte per le persone tra i 30 e i 49 anni.

I vaccini hanno ridotto enormemente la pericolosità della Covid-19. Ma secondo le stime elaborate dal ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, in Italia il tasso di letalità è pari allo 0,12 per cento con la variante delta e allo 0,14 per cento con la variante omicron, il doppio rispetto a quello dell’influenza. Per i non vaccinati rimane poi tra le sei e le dieci volte più letale.

Va inoltre considerato che i virus influenzali si diffondono molto più lentamente del coronavirus che causa la Covid-19. L’influenza ha un indice R0 (ossia il numero che indica la quantità di persone infettate in media da un positivo, all’inizio di un’epidemia) pari a circa 1,3, mentre il coronavirus originale alla base della Covid-19 aveva un indice R0 intorno a 3. Quello della variante omicron, molto più contagiosa delle precedenti varianti, potrebbe essere pari anche a 6 o 8 (altrimenti non avrebbe soppiantato la variante delta, che aveva un indice R0 pari a circa 5).

Anche se i vaccini prevengono la maggioranza delle forme gravi della Covid-19, gli ingressi in ospedale rimangono sensibilmente superiori di quelli che si hanno normalmente per l’influenza. Nel mese di dicembre 2021, nel Regno Unito si sono registrati circa 9 mila ricoveri in terapia intensiva per Covid-19 contro i circa 2 mila ricoveri per polmonite che avvenivano tradizionalmente prima del 2020.

«Gli ospedali sono vuoti»

Ogni giorno, da quasi due anni, in Italia vengono diffusi i dati su quanto sono occupati da pazienti Covid-19 i posti letto di terapia intensiva e nei reparti di malattie infettive, pneumologia e medicina generale. Spesso si è sentito dire che questi numeri testimonierebbero come gli ospedali siano “vuoti”, o comunque non sotto pressione. Ma non è così.

Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), ad oggi in Italia il 17 per cento dei posti di terapia intensiva è occupato da pazienti Covid-19. Questo dato non tiene conto né di chi si è negativizzato, ed è ancora ricoverato, né di tutti gli altri pazienti ricoverati per altri motivi. La stragrande maggioranza dei posti definiti come “liberi” in realtà è occupata da pazienti con patologie diverse dalla Covid-19.

In Italia non esistono dati su quanti posti letto in ospedale siano occupati complessivamente per tutte le patologie, ma è ragionevole assumere che questi reparti non siano normalmente vuoti: altrimenti difficilmente rimarrebbero aperti.

Nel 2017 – dunque prima della pandemia – l’occupazione in Italia dei posti in ospedale per i casi acuti (definito come il numero di giorni di degenza diviso il numero di posti letto moltiplicato per 365) era del 79 per cento, contro una media del 75 per cento dei Paesi Ocse. Alcune linee guida internazionali, come quelle del Ministero della Salute britannico, nel 2018 raccomandavano di non superare il 90 per cento di occupazione per evitare che ci fosse il rischio che una persona non potesse essere ricoverata in rianimazione appena ne avesse avuto bisogno.

Altri Paesi forniscono i dati sulle occupazioni complessive, che smontano la narrazione degli ospedali “vuoti”. In Svizzera, ad esempio, attualmente il 33 per cento degli 876 posti letto in terapia intensiva è occupato da pazienti Covid-19, il 46 per cento dei posti è occupato da pazienti con altre malattie e solo il 21 per cento è libero. A Zurigo, sebbene i pazienti Covid-19 occupino “solo” il 30 per cento dei posti, quelli completamente liberi sono meno del 9 per cento.

Negli Stati Uniti, invece, all’8 gennaio i pazienti con la Covid-19 occupavano il 22 per cento dei posti letto, ma quelli realmente occupati erano quasi l’80 per cento. Per quanto riguarda le terapie intensive, a fronte di un’occupazione del 33 per cento dei pazienti Covid-19, quella reale complessiva era dell’82 per cento.

Inoltre, anche un numero non enorme di pazienti Covid-19 può mettere sotto pressione il sistema sanitario. In Piemonte diversi ospedali e aziende sanitarie locali hanno iniziato a rimandare gli interventi non essenziali al fine di avere più posti letto e personale disponibile. A fine dicembre la Valle d’Aosta ha sospeso i ricoveri, permettendo solo quelli provenienti dai pronto soccorsi, e ridotto l’attività chirurgica. La stessa decisione è stata presa anche in Campania.

«Le restrizioni non funzionano»

Nella prima fase della pandemia la maggioranza dei governi ha scelto di imporre severe restrizioni per contenere la diffusione del coronavirus ed evitare il collasso degli ospedali. Successivamente, nell’affrontare la seconda e terza ondata, i governi hanno adottato restrizioni più modulari e meno dure (come il sistema a colori in Italia). Con l’arrivo dei vaccini la maggior parte dei governi ha poi scelto di non imporre più i lockdown per via dei forti costi sociali ed economici.

Sebbene l’utilità delle restrizioni sia spesso messa in discussione, la letteratura scientifica ha mostrato che sono valide per bloccare la trasmissione del virus. Una ricerca di maggio 2021 che ha analizzato 348 studi condotti nel primo anno di pandemia, concludendo che «i tentativi di modellazione mostrano in modo unanime l’importanza e l’efficacia degli interventi non farmaceutici nel rallentare la diffusione della Covid-19» e che «i Paesi che hanno agito in anticipo rispetto alla diffusione locale hanno avuto il maggior successo nel controllo della diffusione riportando un numero di vittime sensibilmente inferiore».

In conclusione

A ogni ondata in Italia si ripetono diversi luoghi comuni, per la gran parte non supportati dai numeri e da basi scientifiche.

Il numero di test è sistematicamente insufficiente per affrontare l’aumento dei casi che si verifica. Non testare gli asintomatici vuol dire arrendersi a qualsiasi tentativo di rallentare la crescita del contagio. Le restrizioni funzionano, anche se hanno un alto costo sociale. La Covid-19 rimane molto più pericolosa dell’influenza e gli ospedali non solo non sono vuoti, ma si trovano a dover lavorare a ritmi maggiori della normalità per curare anche i casi di Covid-19.

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