Che fine ha fatto la Via della Seta in Italia

Secondo Meloni l’intesa con la Cina è stata un «errore» e ora dovrà decidere se rinnovarla. Intanto le conseguenze dell’accordo sono state molto limitate
Ansa
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Da quando è in carica la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata l’unica tra i leader dei principali Paesi dell’Unione europea a non aver fatto un viaggio istituzionale a Pechino, affermando di recente che una visita in Cina non è ancora stata «calendarizzata». In passato Meloni ha più volte espresso critiche nei confronti del governo cinese, ammorbidendo le sue posizioni una volta diventata presidente del Consiglio.

Uno dei dubbi della leader di Fratelli d’Italia riguarda il possibile sviluppo in Italia della Belt and road initiative (Bri), più comunemente nota con il nome di “Nuova via della seta”. Durante l’ultima campagna elettorale Meloni ha detto che l’adesione italiana a questa iniziativa è stata un «errore», mentre a novembre il ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che il rinnovo dell’accordo tra i due Paesi, che scade quest’anno, è «improbabile». 

Finora quali conseguenze ha avuto la Nuova via della seta? In breve, la risposta è: poche. Il progetto e gli accordi italiani con i cinesi però continuano ad avere una forte valenza politica.

Il Memorandum d’Intesa e l’instabilità italiana

A marzo 2019, quando era in carica il primo governo Conte, il presidente cinese Xi Jinping si è recato in visita di Stato in Italia, durante la quale è stato sottoscritto un “memorandum d’intesa” (memorandum of understanding, MoU) tra i due Paesi. Questo memorandum non aveva un valore di accordo internazionale, e dunque non prevedeva impegni vincolanti da un punto di vista giuridico, ma individuava alcuni principi e modalità di collaborazione per la realizzazione della Nuova via della seta. All’epoca altri 14 Paesi dell’Unione europea avevano siglato un accordo simile con la Cina, ma l’Italia era il primo Paese del G7 a farlo. 

La Belt and road initiative è un piano ambizioso per sviluppare nuove rotte commerciali che colleghino la Cina al resto del mondo. Nel 2013 il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato la volontà di costruire un adattamento moderno delle antiche rotte commerciali della Via della Seta, dando vita a una rete di ferrovie, porti, oleodotti, reti elettriche e autostrade per trasportare merci tra Oriente e Occidente. Questa iniziativa va oltre le infrastrutture: è un progetto che vuole sviluppare un mercato allargato e interdipendente, accrescere il potere economico e politico della Cina e creare le condizioni giuste per costruire un’economia tecnologicamente avanzata.

L’accordo con l’Italia ha promosso la cooperazione bilaterale in sei diverse aree, tra cui i trasporti e le infrastrutture, il commercio, la cooperazione finanziaria, la connettività tra le persone e la cooperazione allo sviluppo verde. Pur non essendo giuridicamente vincolante, la firma del protocollo ha rappresentato un evento profondamente simbolico nella storia recente della politica estera italiana. 

L’adesione dell’Italia ha suscitato preoccupazione in alcuni governi europei e in quello degli Stati Uniti, ed è stata contestata anche dai partiti di opposizione italiani, tra cui Fratelli d’Italia, guardando a una possibile ripercussione sulle tradizionali alleanze occidentali. Tra le altre cose, le preoccupazioni hanno riguardato la mancanza di chiarezza sugli obiettivi del progetto e la partecipazione esclusiva di attori economici cinesi.

A settembre 2019 la caduta del primo governo Conte e la formazione del secondo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 stelle e Partito democratico, ha modificato l’atteggiamento italiano nei confronti della Cina, con meno interesse a portare avanti il dossier sulla Nuova via della seta. Le posizioni più vicine agli Stati Uniti sono state poi confermate anche dal successivo governo di Mario Draghi, che, almeno da un punto di vista comunicativo, ha preso le distanze rispetto alla precedente apertura verso la Cina.

Secondo vari osservatori, l’instabilità politica italiana avrebbe confuso il governo cinese, preoccupato dalla possibilità che una maggiore incertezza governativa si ripercuota sulla continuità strategica degli investimenti.

Quali sono stati i risultati della Bri

Al momento l’intesa firmata nel 2019 tra Italia e Cina non ha portato a particolari conseguenze concrete. «I risultati sono stati piuttosto limitati: molti accordi erano già preesistenti: il memorandum è stato un cappello formale a collaborazioni già in essere», ha spiegato a Pagella Politica Francesca Ghiretti, analista del Mercator institute for China studies (Merics), un think tank di studi sulla Cina con sede in Germania. «Questo memorandum è stato complessivamente deludente da un punto di vista commerciale ed economico. Si è trattato più di un gesto diplomatico, con tutti i problemi del caso».

Per esempio l’aumento delle esportazioni, annunciato come uno dei principali benefici per l’Italia, non sembra aver rispettato le attese, almeno se confrontato ai numeri delle importazioni dal Paese asiatico. Le esportazioni italiane in Cina sono infatti cresciute dai 13 miliardi di euro del 2019 ai 16,4 miliardi di euro del 2022, ma parallelamente le importazioni di merce cinese hanno registrato un aumento più marcato, passando da 31,7 miliardi a 57,5 miliardi in pochi anni. 

Negli ultimi dieci anni sono stati investiti in Italia 16 miliardi di euro dalla Cina. Guardando all’Europa, questo è un risultato inferiore rispetto a Paesi come il Regno Unito (51,9 miliardi) e la Germania (24,8 miliardi), che non hanno mai aderito formalmente alla Bri. «L’adesione italiana all’iniziativa cinese non ha avuto un reale impatto sulle relazioni economiche tra Cina e Italia e paradossalmente la Francia ha firmato accordi commerciali più consistenti rispetto all’Italia, pur non essendo parte della Bri», ha aggiunto Ghiretti. «La firma del memorandum è un gesto diplomatico, con tutti i suoi pro e contro, ma non ha avuto ricadute economiche importanti».

Tra i progetti riusciti c’è la collaborazione tra l’Agenzia spaziale italiana e la China national space administration, precedente però alla firma del memorandum d’intesa, dunque avvenuta sulla scia di una collaborazione già in corso. Stesso discorso vale per la cooperazione tra Ansaldo Energia e le cinesi China United Gas Turbine e Shanghai Electric Power, avviata prima del 2019. Altri sviluppi hanno riguardato la restituzione di 796 reperti archeologici dall’Italia alla Cina, avvenuta a marzo 2019. C’è stata poi una collaborazione tra l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e Alibaba, piattaforma cinese di e-commerce, per la creazione nel 2020 di un “Padiglione Made in Italy” per il commercio online.

I porti italiani nel mirino

Se l’Italia non sembra aver goduto di una particolare accelerazione nella cooperazione economica, al centro del memorandum spiccano i progetti infrastrutturali: anche in questo caso, un settore non esente da polemiche, soprattutto per quanto riguarda i dossier portuali. 

Durante la recente campagna elettorale in Friuli-Venezia Giulia, per esempio, si è tornati a parlare del porto di Trieste, soprattutto a partire dai recenti sviluppi sull’asse Italia-Germania-Cina. La tedesca Hamburger Hafen und Logistik, legata alla città di Amburgo, è da poco diventata socio di maggioranza del terminal Piattaforma logistica Trieste (Plt). Ma l’azienda tedesca, nello scorso autunno, ha fatto entrare la cinese Cosco nel suo capitale, con un accordo ancora da confermare. «Non ci consegneremo nelle mani dei cinesi», aveva replicato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso a una domanda sui possibili interessi cinesi sullo scalo triestino. A ogni modo, secondo Ghiretti, «dobbiamo ridimensionare il possibile impatto dell’ingresso cinese nel porto di Amburgo: difficilmente ci saranno ripercussioni reali su Trieste».

La stessa Cosco si è fatta avanti per le aree ex Ilva di Genova. Il colosso statale cinese, presente in Italia con Cosco Shipping Italy, joint-venture con il gruppo genovese Fratelli Cosulich, ha presentato una lettera riportata dal giornale online Formiche in cui ha comunicato il suo interesse ad aree nella zona genovese «nell’ottica di un investimento presente e futuro sul territorio ligure, con importanti progetti quale la creazione di un autoparco». Cosco è stata attiva anche a Vado Ligure, prima dell’ingresso italiano nella Bri. «Già dal 2016 era attiva la cooperazione per il terminal di Vado Ligure, ma il progetto è entrato nel mirino politico solo dopo la firma del memorandum», ha aggiunto Ghiretti. «Genova è un caso emblematico e ci mostra l’evoluzione dei tempi: nel 2016 gli accordi sono passati inosservati, mentre nel 2019 sono diventati problematici. In questi casi possiamo dire che il memorandum non ha avuto particolare impatto positivo, anzi ha attirato i riflettori, ostacolando i progetti».

C’è poi il dossier legato al porto di Taranto, su cui Ferretti Group, gruppo controllato dalla cinese Weichai, sarebbe pronta a investire per ingrandire la sua gestione nello scalo pugliese. Ma anche una seconda società, Progetto Internazionale 39, starebbe puntando a una zona di 150 mila metri quadrati per la logistica: l’azienda è controllata al 33 per cento da Gao Shuai, imprenditore impegnato nella cooperazione italo-cinese e delegato del governo di Pechino.

Prospettive per il futuro

La Bri è stata spesso descritta come un sorta di “contenitore strategico” in cui è possibile inserire praticamente di tutto: in altre parole, rappresenta un’iniziativa politica con obiettivi strategici a lungo termine.

Il 2023 sarà cruciale: entro la fine dell’anno l’Italia dovrà decidere se rinnovare o meno l’accordo firmato a marzo 2019. «Il fatto che torni a occupare un ruolo centrale nel dibattito italiano è piuttosto incomprensibile, considerando la sua portata limitata. In uno scenario ideale l’accordo sarebbe finito in sordina, anche in caso di rinnovo automatico», ha sottolineato Ghiretti. «Ora è stato riportato in auge, Meloni ne ha parlato più volte e su questo dossier c’è l’attenzione americana: ora il governo è in una posizione difficile». 

L’accordo è infatti valido per cinque anni e sarà automaticamente prorogato per i successivi quinquenni e così via, a meno che una delle due parti non decida di recedere anticipatamente. In altre parole, se vuole recedere, l’Italia deve notificarlo alla Cina entro dicembre e rischiare una reazione da parte del governo cinese. 

«Il nuovo esecutivo finora ha avuto una politica atlantista, ma chiudere l’accordo con la Cina significa aprirsi a pressioni e ripercussioni cinesi, in particolare per le imprese e il commercio, alle quali il governo dovrà prepararsi», ha concluso Ghiretti. «In questo senso Meloni è in bilico tra una solida linea atlantista e la tutela delle imprese italiane attive in Cina».

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