La riforma del Csm, riassunta in quattro punti

Il testo, noto anche come “riforma Cartabia”, è stato approvato definitivamente dal Parlamento, non senza malumori nei partiti che sostengono il governo
Assemblea plenaria del Csm, luglio 2017, Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Assemblea plenaria del Csm, luglio 2017, Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Il 16 giugno il Senato ha approvato definitivamente la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura (Csm), con 173 voti favorevoli, 37 contrari e 16 astensioni. Il testo – noto anche come riforma “Cartabia”, dal nome della ministra della Giustizia Marta Cartabia – era già stato approvato ad aprile dalla Camera dei deputati, dopo lunghe trattative tra i partiti che sostengono il governo guidato da Mario Draghi e dopo le critiche dell’Associazione nazionale dei magistrati (Anm).

La riforma è il terzo intervento significativo sulla giustizia fatto dall’esecutivo, dopo la riforma della giustizia civile e di quella penale, entrambe fondamentali per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato con oltre 190 miliardi di euro dall’Unione europea per rilanciare l’economia italiana. 

Il Csm è l’organo che governa la magistratura in Italia: tra le altre cose, decide le assunzioni, i trasferimenti e le promozioni di tutti i magistrati italiani, e valuta il loro lavoro. Di Csm si è sentito molto parlare negli ultimi mesi, perché tre dei cinque referendum sulla giustizia, bocciati il 12 giugno alle urne, riguardavano proprio i magistrati. Più in generale, da anni il Csm è al centro del dibattito politico italiano, accusato di essere eccessivamente influenzato dalle cosiddette “correnti”, ossia le aggregazioni tra i vari magistrati con una linea politica comune.

Dall’elezione dei membri del Csm alla cosiddetta “separazione delle carriere”, ecco quali sono i quattro punti principali della riforma, che, ricordiamo, è in parte un disegno di legge delega. Tradotto in parole semplici, alcune novità contenute nella riforma saranno subito effettive, mentre per altre, nei prossimi mesi, servirà l’approvazione di appositi decreti da parte del governo.

L’elezione del Csm

Attualmente il Csm è composto da 27 membri: il presidente della Repubblica, membro di diritto e capo del Csm; il primo presidente della Corte di Cassazione; il procuratore generale presso la Corte di Cassazione; 16 membri “togati” eletti tra i magistrati di tutta Italia; e infine otto membri “laici”, eletti dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno 15 anni di esercizio della professione.

La riforma aumenta il numero dei membri del Csm a 30, più i primi tre citati in precedenza, che sono membri di diritto. Venti magistrati saranno eletti dai colleghi, mentre dieci membri laici saranno eletti dal Parlamento.

Il nuovo sistema per l’elezione dei magistrati è piuttosto articolato, ma in sintesi l’accordo raggiunto tra i partiti prevede un sistema misto, tra il maggioritario e il proporzionale. Quattordici membri del Csm eletti dai magistrati saranno infatti scelti in singoli collegi dove passeranno i due candidati più votati (in assenza di candidature, i membri vengono sorteggiati). Cinque membri saranno assegnati a livello nazionale, con un sistema proporzionale, mentre un ventesimo seggio andrà a un pubblico ministero.

La separazione delle carriere

Attualmente in Italia non esiste la cosiddetta “separazione delle carriere” dei magistrati: i pubblici ministeri (pm), che fanno le indagini e svolgono la funzione requirente (rappresentano cioè l’accusa nel processo), e i giudici, che emettono le sentenze e svolgono la funzione giudicante, fanno parte dello stesso corpo giudiziario e le loro carriere non sono separate. I giudici possono dunque diventare pm, e viceversa, cambiando la propria funzione al massimo quattro volte durante la propria carriera (prima del 2006 questo vincolo non c’era), con alcuni paletti: per esempio, non si può cambiare ruolo all’interno dello stesso distretto giudiziario.

Il terzo quesito referendario sulla giustizia chiedeva proprio di impedire la possibilità dei cambi di funzione, ma il 12 giugno non ha raggiunto il quorum.

La riforma approvata dal Parlamento prevede che un magistrato potrà chiedere il passaggio dalle funzioni di giudice a quelle di pm, o viceversa, solo una volta nel corso della propria carriera. La richiesta dovrà essere fatta entro dieci anni dal momento dell’assegnazione del primo ruolo.

Numeri alla mano, secondo i dati più aggiornati del Csm, circa il 10 per cento dei magistrati italiani ha fatto più di un cambio di funzione nel corso della propria carriera.

I limiti alle “porte girevoli”

Un altro punto su cui interviene la “riforma Cartabia” riguarda le cosiddette “porte girevoli” nella magistratura, ossia l’ingresso dei magistrati in politica e il loro successivo ritorno al loro lavoro originario. L’obiettivo, come spiega un dossier del Senato, è quello di realizzare «una più accentuata separazione tra politica e magistratura».

Con la riforma, un magistrato potrà entrare in politica, come accade già oggi, ma candidandosi in una regione diversa rispetto a quella dove ha lavorato nei tre anni precedenti e senza percepire più il proprio compenso da magistrato. Se un magistrato viene eletto e poi decide di ritornare al proprio lavoro originario, non potrà ricoprire ruoli che riguardino l’applicazione delle leggi, ma avrà incarichi amministrativi. Se un magistrato, invece, va in aspettativa per lavorare in un ministero, non potrà poi tornare al proprio lavoro originario prima che siano passati almeno tre anni.

La valutazione dei magistrati

Infine, la riforma dà il potere al governo di introdurre un nuovo sistema di valutazione delle carriere dei magistrati. Oggi un magistrato è valutato ogni quattro anni dai consigli giudiziari, organi collegiali che sono presenti nei 26 distretti di Corte d’appello in tutta Italia. Nella valutazione non possono partecipare gli avvocati o i professori universitari esperti di diritto, ma solo i magistrati.

Con la riforma, sarà istituito uno schedario nel quale saranno raccolti i dati statistici sull’attività di ciascun magistrato, aggiornati ogni anno. Nella valutazione dei magistrati, potranno partecipare anche gli avvocati, ma con una serie di vincoli.

Le reazioni dei partiti

In Senato i partiti che sostengono il governo non hanno votato in maniera compatta a favore della riforma “Cartabia”. I membri del Movimento 5 stelle, del Partito democratico e di Forza Italia si sono schierati per il sì, così come quelli della Lega, tranne alcuni senatori leghisti, tra cui figura anche il presidente della Commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari. La riforma «è un compromesso al ribasso tra diverse richieste e non è sufficiente per risolvere il vero problema: la degenerazione delle correnti, che ha creato quel condizionamento che tutti dicono di voler combattere», ha dichiarato il 17 giugno Ostellari a un’intervista con il quotidiano Il Tempo. «Serviva più coraggio per aumentare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, e tutto ciò in favore del Paese».
Anche Italia viva si è astenuta. «Una riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario serve, ma la sua riforma serve meno di quello che noi speravamo», ha detto nell’aula del Senato il 16 giugno il leader del partito Matteo Renzi, rivolgendosi alla ministra Cartabia. «Non tocca il potere delle correnti; non tocca la responsabilità dei magistrati, per cui chi sbaglia spesso non paga; soprattutto lascia un po’ di amaro in bocca per la modalità con cui è arrivata al traguardo».

Una posizione ancora più negativa nei confronti della riforma è stata adottata da Fratelli d’Italia all’opposizione, che per voce del senatore Alberto Balboni ha definito la riforma «sbagliata, regressiva, certamente inutile» e «dannosa», perché «non scalfisce lo strapotere delle correnti nel Csm».

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