La sanità italiana funziona meglio di quanto pensiamo?

Gran parte dei cittadini è insoddisfatta del sistema sanitario, ma i dati sul suo funzionamento mostrano un quadro variegato
ANSA/MATTEO CORNER
ANSA/MATTEO CORNER
Gli italiani non sono soddisfatti della sanità pubblica. È quanto emerge dall’Health at a Glance 2023, il rapporto pubblicato periodicamente dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per confrontare tra loro i sistemi sanitari dei Paesi membri. Secondo il report, uscito a novembre, solo il 55 per cento degli italiani sarebbe soddisfatto del servizio di cura del Sistema sanitario nazionale (Ssn) contro una media Ocse del 67 per cento, mentre in Paesi come Francia e Germania le percentuali di soddisfazione arrivano rispettivamente all’85 e al 71 per cento. 

Il dato italiano, che tutto sommato potrebbe non stupire, appare però in contraddizione con il resto del rapporto dell’Ocse, dove l’Italia, pur non brillando, rimane comunque uno Stato al di sopra della media nella qualità del servizio sanitario. Il nostro Paese, infatti, fa meglio della media Ocse nell’80 per cento degli indicatori riguardanti la qualità del servizio e le liste d’attesa, e l’aspettativa di vita alla nascita è tra le più alte, con un valore di 82,7 anni d’età contro una media di 80,3.

A questi numeri si aggiunge un’altra statistica, raccolta da Eurostat. Secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, nel 2022 poco meno del 2 per cento dei cittadini italiani con almeno 16 anni di età ha dichiarato di aver avuto bisogni sanitari insoddisfatti, tra le altre cose per i costi troppo alti delle cure. 

Insomma, leggendo i dati del report Ocse il sistema sanitario nazionale sembra funzionare ancora piuttosto bene: ma allora perché a molti cittadini sembra vero il contrario?

I problemi: infermieri, posti letto, finanziamenti

Innanzitutto va sottolineato che, al netto delle statistiche positive, lo stesso rapporto Ocse ha evidenziato alcuni problemi della sanità pubblica italiana. Su tutti, come più volte è stato fatto notare durante la pandemia di Covid-19, in Italia le strutture sanitarie presentano un numero inferiore di posti letto rispetto alla media europea. 

Uno degli aspetti principali su cui il nostro Paese ha dati più bassi rispetto a molti altri riguarda il finanziamento del sistema sanitario. L’Italia spende, compresa la spesa dei privati, 4.291 dollari pro capite in sanità, contro la media Ocse di 4.986 dollari. Ciò significa, in percentuale al Pil, che il 9 per cento va in spesa sanitaria, contro il 9,2 per cento della media Ocse. Considerando la spesa sul Pil come indicatore, il nostro Paese fino al 2016 era al di sopra della media e dall’anno successivo ha iniziato a scendere. A questo si aggiunge, secondo quanto riporta l’European Observatory on Health Systems and Policies, un gruppo di esperti che si occupa di informare i decisori politici riguardo i sistemi sanitari, un aumento consistente delle spese out of pocket, ossia quelle pagate direttamente dal cittadino che non sono coperte dallo Stato o dalle assicurazioni. 

Per quanto riguarda il personale sanitario, per cui il governo Meloni ha stanziato oltre 2 miliardi di euro nella legge di Bilancio per il 2024, la sanità italiana raggiunge risultati diversi per medici e infermieri. In Italia ci sono 4,1 medici ogni mille abitanti, contro una media Ocse di 3,7. Il dato è positivo, sebbene i medici di età uguale o superiore ai 55 anni siano il 55 per cento del totale, contro il 30 per cento del 2001. Allo stesso tempo il numero di laureati in medicina è aumentato considerevolmente nel corso degli anni e questo valore è al di sopra della media Ocse. Nonostante diversi politici, tra cui il segretario della Lega Matteo Salvini, sostengono da anni l’abolizione del numero chiuso a medicina come soluzione ai problemi della sanità italiana, nel 2021 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati) in Italia c’erano 18,2 laureati in medicina ogni 100 mila persone, contro una media di 14,2 nei Paesi Ocse. 

Nel campo infermieristico la situazione è opposta. Come abbiamo analizzato in passato, l’Italia presenta carenze strutturali nel personale infermieristico, il cui numero è sotto la media Ocse. Nel nostro Paese il rapporto tra dottori e infermieri è pari a 1,5, rispetto a una media di 2,5, con i principali Paesi europei nella parte alta della classifica. Lo scarso numero di infermieri è un fenomeno che ormai caratterizza da tempo l’Italia. Gli altri Paesi al di sotto della media Ocse presentano da anni un trend crescente nelle assunzioni di infermieri, mentre nel nostro Paese questo dato è stato progressivamente in calo e solo nell’ultimo periodo è ripreso a crescere. La situazione rimane comunque preoccupante se si considera il numero di laureati in infermieristica: solo 17,2 ogni 100 mila abitanti contro una media Ocse di 42,8.

L’importanza dei medici di base

Come abbiamo visto prima, poco più della metà dei cittadini si dichiara soddisfatto del servizio sanitario. Ma quali sono i punti di forza del Sistema sanitario nazionale? Una sua crisi può spiegare il perché di questa disaffezione dei cittadini? 

Per cercare una possibile risposta a questo domanda è necessario riprendere un sondaggio contenuto nel rapporto annuale di Crea Sanità, un centro di ricerca sull’economia applicata alla sanità. Nel loro rapporto del 2021 i ricercatori hanno effettuato un sondaggio su un campione rappresentativo della popolazione italiana, raccogliendo informazioni sul giudizio che gli italiani hanno sul Ssn. In primo luogo i ricercatori hanno richiesto agli intervistati di individuare in quale campo si ritenessero più soddisfatti del sistema sanitario. Oltre la metà degli intervistati ha messo al primo posto il rapporto con il proprio medico di medicina generale, il cosiddetto “medico di base”, al secondo posto la qualità generale dei medici del Ssn e al terzo la gratuità della maggior parte dei farmaci. 

La questione dei medici di base appare quella più complessa da trattare, come testimoniato da un report dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas). Nonostante i sondaggi abbiano dimostrato l’importanza attribuita dagli italiani alla cosiddetta “medicina di prossimità” nella valutazione complessiva del Ssn, in Italia il numero di medici di base risulta ancora inferiore rispetto alla media europea, come mostrano i dati Eurostat. E questo è un problema che andrà peggiorando, vista la distribuzione anagrafica: secondo il report di Agenas oltre il 75 per cento dei medici di base è in servizio da oltre 27 anni. Secondo i calcoli dell’agenzia, nei prossimi anni verranno a mancare centinaia di medici di base in ogni regione italiana, salvo in Valle d’Aosta e nella provincia di Trento.
In secondo luogo i ricercatori di Crea Sanità hanno indagato i motivi di maggior insoddisfazione. Tra i più citati ci sono i tempi per richiedere un appuntamento e in generale il processo burocratico e organizzativo con cui i pazienti si interfacciano con la sanità pubblica. Questo problema è strettamente collegato con il numero inadeguato di operatori amministrativi che lavora nel campo sanitario in Italia rispetto agli altri Paesi.

La definizione di sanità

Confrontando diversi report, come quelli di Ocse, Agenas e Crea Sanità, è importante notare le differenze nella valutazione del sistema sanitario nazionale. 

Il report Health at a Glance di Ocse, per esempio, analizza quantità misurabili del servizio sanitario, tra cui i posti letto, la spesa sanitaria e il numero di dottori. Ma limitarsi a questi indicatori rischia di fornire un quadro riduttivo del concetto di “salute”. Come sottolinea la letteratura scientifica più recente, la definizione di “salute” è piuttosto complessa e, in un mondo dove l’aspettativa di vita è aumentata, riguarda soprattutto la capacità di una persona di adattarsi ai cambiamenti e alle varie fasi della vita. Questo processo avviene con un costante rapporto tra il medico e il paziente. Per questo i dati quantitativi vanno integrati in una visione più ampia. 

Da questo punto di vista, il sondaggio del centro studi Crea Sanità integra l’analisi quantitativa con quella qualitativa, perché analizza sia il rapporto tra paziente e medico sia le difficoltà burocratiche e organizzative. Da questo studio è emerso che una scarsa comunicazione dovuta alla mancanza di personale rischia di disaffezionare le persone al nostro sistema sanitario. 

Analizzando in maniera più specifica le risposte, i ricercatori hanno poi messo in evidenza il tema dell’eterogeneità spaziale, ossia di quanto la risposta ai quesiti varia in base alla provenienza geografica dell’intervistato. Sono stati infatti rilevati particolari disagi soprattutto nelle “aree interne” del Paese, le zone più lontane dai centri abitati, dove c’è più carenza di servizi alle persone. Anche per questo, i cambiamenti sociali avvenuti nel corso degli ultimi anni hanno comportato uno svuotamento delle aree interne: mentre i giovani si sono spostati verso i poli, attratti dalle opportunità lavorative, la popolazione anziana è rimasta nei piccoli comuni dove ha sempre risieduto.

La questione delle aree interne

Come ha fatto notare sulla rivista Forward della Direzione Epidemiologia della Regione Lazio Chiara Marinacci, direttrice sanitaria della regione, negli anni si sono registrati problemi notevoli per la tutela della salute nelle aree interne. In particolare, la chiusura dei piccoli ospedali e la riorganizzazione dei reparti con l’obiettivo unico dell’efficienza sembra un tentativo di risparmiare il possibile sul lato economico senza però garantire davvero il diritto alla salute.  

Sulla base di queste evidenze, per arginare l’insoddisfazione nei confronti del Ssn non sembra bastare solo l’aumento dei fondi per la sanità. Serve anche potenziare la medicina di prossimità, dato che i report mostrano che la soddisfazione dei cittadini dipende in larga parte dalla possibilità di interfacciarsi in tempi rapidi con i medici di medicina generale e di utilizzare strutture disposte in maniera capillare sul territorio. 

Su questo fronte il nostro Paese si è impegnato, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), a un miglioramento dell’assistenza sanitaria territoriale. Questo nuovo modello punta sul potenziamento della cosiddetta “telemedicina”, ossia la possibilità di curare un paziente a distanza, ma soprattutto su investimenti in strutture di prossimità e su presidi sul territorio. In totale il Pnrr destina oltre 15 miliardi di euro agli investimenti in sanità.

Una parte delle risorse potenzierà la telemedicina, soprattutto per gli anziani con oltre 65 anni di età, grazie alla creazione di centrali operative territoriali per gestire i contatti. Nel piano è previsto il potenziamento dei cosiddetti “ospedali di comunità” e delle “case della comunità”, che hanno una funzione intermedia tra il domicilio del paziente e il ricovero.

La costruzione di nuovi ospedali e di nuove case della comunità è stata comunque rimodulata con la revisione del Pnrr, presentata la scorsa estate dal governo Meloni e approvata a inizio dicembre dall’Ue. I nuovi ospedali di comunità da costruire entro il 2026 sono passati da 400 a 307 e le case di comunità da 1.350 a 1.038. Queste riduzioni sono state motivate dal governo con l’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche. I rincari hanno infatti comportato un aumento del costo degli investimenti programmati, in particolare per le opere di edilizia sanitaria.

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