Gli slogan dei politici che rallentano la transizione ecologica

Il negazionismo climatico è quasi scomparso, ma partiti e governo rischiano di rimandare gli interventi contro l’aumento delle temperature con argomentazioni più sottili
ANSA/GIUSEPPE UNGARI/PAL
ANSA/GIUSEPPE UNGARI/PAL
Oggi chi sostiene che il riscaldamento globale non esiste o non è causato dagli esseri umani è ormai quasi sparito dal dibattito politico italiano. In compenso, sulla politica pesano sempre di più argomentazioni che, prestandosi a facili slogan, rischiano di ridimensionare le conseguenze dell’emergenza climatica in corso e di rallentare la transizione ecologica.

È la retorica del climate delay, come l’hanno chiamata alcuni ricercatori: sebbene sia più sottile rispetto al negazionismo climatico, questa è altrettanto pericolosa e fuorviante. Ed è sempre più rintracciabile nelle affermazioni di alcuni membri del governo e del Parlamento. 

Il nuovo negazionismo?

La teoria del climate delay è stata presentata a giugno 2020 in uno studio, intitolato Discourses of climate delay e pubblicato sulla rivista scientifica Global Sustainability, edita dall’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Lo studio è stato condotto da un gruppo di dieci esperti, tra cui c’è anche l’italiano Giulio Mattioli, ricercatore nel dipartimento per la pianificazione dei trasporti dell’Università tecnica di Dortmund, in Germania. «Il rapporto è nato dalla sensazione di alcuni di noi che fosse in atto uno spostamento dal negazionismo classico verso un altro tipo di discorso, che riconosce l’emergenza ma trova scuse per non agire», ha detto Mattioli a Pagella Politica. 

Sulla base di alcune dichiarazioni di politici europei, i ricercatori hanno individuato – in modo «non sistematico», ha specificato Mattioli – quattro tipi di argomentazioni che ricorrono spesso nel dibattito sull’emergenza climatica e che sono utilizzate per giustificare la necessità di posticipare le decisioni più difficili: reindirizzare le responsabilità, spingere per soluzioni non trasformative, enfatizzare gli svantaggi delle misure proposte, e, infine, arrendersi a una disfatta ormai inevitabile. 

L’attenzione si è così spostata dal piano scientifico a quello normativo: «Il climate delay non attacca la scienza del cambiamento climatico, ma le leggi che si tenta di fare per constrastarlo, ha spiegato a Pagella Politica William Lamb, ricercatore al Mercator Research Institute on Global Commons and Climate Change di Berlino e co-autore dello studio. 

Secondo Massimo Tavoni, direttore dell’Istituto europeo per l’economia e l’ambiente (Eiee) e docente di Economia ambientale al Politecnico di Milano, i discorsi di climate delay non sono comunque una novità nel panorama italiano. «Sono argomenti standard che ci sono sempre stati – ha sottolineato Tavoni a Pagella Politica – ma oggi diventano più vigorosi perché l’impatto umano sul clima è ormai dato per scontato», e quindi «è più difficile negare tutto». Con il climate delay si cerca di ritardare l’azione, ma «per riuscire a recuperare il tempo perso bisogna poi accelerare, e questo a sua volta viene usato come ulteriore scusa per non fare nulla», ha spiegato Tavoni a Pagella Politica. «È un argomento fastidioso e fazioso, ma è la strategia che stiamo vedendo in Italia in questo momento». 

D’altra parte, secondo Stella Levantesi, giornalista e autrice del libro I bugiardi del clima (Laterza 2021), la discussione sul clima si è evoluta nel tempo, ma il negazionismo non è mai scomparso del tutto. «Nel periodo della Cop 26, la conferenza sul clima di Glasgow tenuta a novembre scorso, in Italia sono riaffiorati tantissimi interventi negazionisti», ha detto Levantesi, aggiungendo che «non è un caso, ma si tratta di un pattern storico: quando l’azione climatica è al centro del dibattito la macchina negazionista si riattiva».

Non sono io, sei tu

La prima categoria di affermazioni tipiche del climate delay punta il dito altrove, addossando le responsabilità del cambiamento climatico su attori distanti da noi. Qui i responsabili chiamati in causa sono le nazioni che inquinano di più, i singoli consumatori, oppure i cosiddetti free rider, ossia i Paesi che si approfitterebbero di chi sta agendo più velocemente per contrastare l’aumento delle temperature.
Figura 1. E gli altri? Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 1. E gli altri? Illustrazione di Léonard Chemineau
Un classico esempio di questa prima categoria del climate delay consiste nell’indicare altri Paesi, per esempio la Cina o l’India, come i reali responsabili dell’emergenza climatica e quindi coloro che per primi dovrebbero cambiare rotta. L’argomentazione è stata più volte ripetuta dal leader della Lega Matteo Salvini, che a maggio 2020 twittava: «​​Si chiede agli imprenditori italiani di rispettare norme sul tema dell’ambiente e della sostenibilità. In Cina non viene rispettato nulla di tutto ciò», e che già nel 2014 aveva affermato: «​​In Italia regole per imprese su lavoro, qualità e ambiente, in Cina e India no: per competere occorre mettere dazi!».

Anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha utilizzato spesso questa argomentazione. Lo scorso anno, nell’ambito della discussione sulla plastic tax un’imposta sugli imballaggi in plastica approvata dal governo Conte II nel 2019 ma la cui applicazione è per ora stata rinviata al 2023 – Meloni ha affermato che la Cina e l’India contribuiscono per «l’80 per cento» allo sversamento di plastica in mare, percentuale nettamente superiore rispetto ai Paesi europei (un’affermazione comunque fattualmente corretta). 

Un altro esempio sono gli slogan che provano a spostare la responsabilità del riscaldamento globale dalle decisioni dei governi o delle autorità sovranazionali alle azioni dei singoli individui. Ne ha dato esempio l’attuale ministro per la Transizione ecologica, il tecnico Roberto Cingolani, che lo scorso dicembre ha sostenuto che il «comparto digitale» produce il «4 per cento» delle emissioni di anidride carbonica a livello globale, di cui «una buona metà» deriva «dall’utilizzo smodato dei social»

L’affermazione tende quindi a sottolineare come i cittadini comuni, utilizzando i social network, contribuiscano in maniera non indifferente a inquinare l’ambiente in cui vivono. In realtà, questa stima si basa su uno studio non particolarmente solido dal punto di vista scientifico, che per di più considera tutte le tecnologie digitali e non menziona l’impatto dei social network presi singolarmente. 

In un’intervista con La Stampa dell’ottobre 2021 Cingolani ha anche citato il ruolo delle auto con tecnologie ormai obsolete, evidenziando l’impatto dei singoli automobilisti sull’inquinamento complessivo: «Abbiamo 13 milioni di automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha i soldi, se noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme», ha detto il ministro della Transizione ecologica. Il dato citato da Cingolani, tra l’altro, è sbagliato: nel 2020 in Italia le auto euro 0 ed euro 1 erano 4,5 milioni, un numero quasi tre volte più piccolo di quello indicato dal ministro.

Come ha spiegato Levantesi a Pagella Politica, «questa narrazione è nata negli anni Settanta attraverso delle strategie di comunicazione ben precise, per esempio tramite campagne pubblicitarie che veicolano questo messaggio: il responsabile del riscaldamento globale è l’individuo, e sarà lui a dover trovare le soluzioni». Ancora oggi questa tesi rimane una delle narrazioni portanti nella lotta al cambiamento climatico, ma è fondamentale ricordare che «il problema è sistemico, non individuale».
Figura 2. Individualismo. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 2. Individualismo. Illustrazione di Léonard Chemineau

Qualcosa ci salverà

La seconda classe di affermazioni tipiche del climate delay propone soluzioni alternative per mitigare il cambiamento climatico. Visti da questa prospettiva le misure restrittive dettate dai governi o dalle autorità vengono sostituite da più miti incoraggiamenti ad agire su base volontaria, utilizzando se necessario anche i combustibili fossili e sperando che, un giorno, una nuova tecnologia ancora da inventare possa liberarci dai problemi. Il tutto accompagnato da discorsi ricchi di forma ma poveri di sostanza.
Figura 3. Ottimismo tecnologico. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 3. Ottimismo tecnologico. Illustrazione di Léonard Chemineau
L’«ottimismo tecnologico», come definito dallo studio, è particolarmente popolare nella politica italiana. Nel novembre 2021, per esempio, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha sostenuto che, quando si parla di transizione ecologica, dobbiamo essere «aperti a tutto, immaginare che quel che è oggi impossibile diventi possibile domani: il panorama delle innovazioni mondiali che vanno a compimento in ogni momento nel mondo è straordinaria, non ci sono confini alle nostre capacità di affrontare questa sfida».

Fiducioso nell’arrivo di qualche salvifica innovazione tecnologica è anche il ministro Cingolani, che lo scorso dicembre ha affermato: «Sono assolutamente certo, ci metterei la firma, che la fusione nucleare sarà la soluzione di tutto. Il concetto è: nel 2050-2070, non so quando riusciremo, avere una piccola stella in miniatura […] che in una grande città produce energia per tutti e non fa scorie radioattive». Come sottolineato anche dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, la fusione nucleare è un processo estremamente complesso, che gli scienziati non sono ancora in grado di gestire. 

L’attenzione per l’energia nucleare ha interessato anche altri esponenti politici, tra cui Matteo Salvini e il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, secondo cui «bisogna credere nell’idrogeno e riprendere la ricerca sul nucleare di ultima generazione, che è sicuro e pulito». Il nucleare di quarta generazione”, quindi estremamente avanzato a livello tecnologico, è ancora in fase di studio e ci vorranno anni prima che sia brevettato un reattore pienamente funzionante. 

Tra gli altri, ha puntato sull’ottimismo tecnologico anche l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che in un articolo pubblicato sul Messaggero a settembre 2021 ha affermato che la transizione energetica «non può fondarsi solo sulle energie alternative oggi conosciute, ma anche su radicali innovazioni nella scienza, nella tecnologia e nelle collaborazioni internazionali»

Altro elemento classico che ricade nell’insieme delle soluzioni non trasformative è la tendenza a fare grandi discorsi per sottolineare l’importanza della transizione ecologica ed elogiare gli impegni presi in questo senso, senza però portare risultati concreti. Molte forze politiche italiane sono cadute in questa trappola, a partire dal Partito democratico. 
Figura 4. Tutto fumo, niente arrosto. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 4. Tutto fumo, niente arrosto. Illustrazione di Léonard Chemineau
Il 21 gennaio, per esempio, il segretario Enrico Letta ha scritto su Facebook: «La riqualificazione energetica delle case abbatte sprechi e consumi eccessivi e riduce le bollette delle famiglie. Bisogna continuare a incentivarla. Le industrie inquinanti devono cedere il passo alle nuove attività ecosostenibili. I lavoratori vanno protetti e accompagnati nella transizione verso un’economia a zero emissioni». Nel post non sono però presenti riferimenti a decisioni effettive che permettano di andare in questa direzione. 

Diversi partiti, dal Movimento 5 stelle a Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno inoltre festeggiato la decisione, approvata l’8 febbraio scorso, di inserire in Costituzione la «tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi». Un passo importante che però, se non accompagnato da azioni reali, rischia di rimanere sulla carta. 

Una terza argomentazione ricorrente è quella che punta sui combustibili fossili, affermando che le modalità di utilizzo stanno diventando sempre più efficienti e rappresentano quindi una buona soluzione in attesa che le fonti rinnovabili vengano perfezionate (o eventualmente inventate). Negli ultimi mesi diversi esponenti politici hanno infatti sostenuto la necessità di rafforzare le attività di estrazione di gas naturale in Italia. 
Figura 5. I combustibili fossili sono la soluzione. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 5. I combustibili fossili sono la soluzione. Illustrazione di Léonard Chemineau
Per esempio, il 18 gennaio scorso il ministro Cingolani, durante un’audizione davanti a due Commissioni di Camera e Senato, ha indicato (min. 21:00) la «valorizzazione della produzione di gas da giacimenti nazionali esistenti» come una misura che potrebbe «contribuire alla mitigazione del costo» dell’energia. Nei programmi del Ministero questo non porterebbe ad aumentare la quota totale di gas utilizzato in Italia, ma valorizzerebbe la produzione sul territorio nazionale in modo da ridurre le importazioni. 

Anche il Partito democratico il 9 febbraio ha pubblicato sui propri account social un post con quattro proposte per ridurre il corso delle bollette, tra cui anche «aumentare la produzione nazionale di gas», mentre a inizio gennaio il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani ha affermato che serve far ricorso a «gas e nucleare pulito», unendo così due tesi di climate delay – quelle sull’utilità dei combustibili fossili e sull’ottimismo tecnologico – in poche parole.

Il gas naturale, lo ricordiamo, rilascia meno anidride carbonica rispetto ad altri combustibili fossili come il carbone o il petrolio, ma emette nell’atmosfera importanti quantità di gas metano, che trattiene il calore ed è considerato uno dei principali responsabili dell’effetto serra. L’11 febbraio il governo Draghi ha approvato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai), che tra le altre cose stabilisce le aree in cui sarà possibile richiedere nuovi permessi esplorativi volti alla produzione di idrocarburi sul territorio nazionale. Nel 2020 sono stati prodotti in Italia 4 miliardi di metri cubi di gas naturale, a fronte di un consumo complessivo da quasi 70 miliardi di metri cubi

Il gioco (non) vale la candela

La terza categoria di argomentazioni tipiche del climate delay tende a enfatizzare i lati negativi della lotta al cambiamento climatico: politiche troppo stringenti abbasserebbero eccessivamente la nostra qualità della vita, le loro conseguenze ricadrebbero sulle fasce della popolazione già oggi svantaggiate, e infine piuttosto che approvare leggi imperfette è meglio lasciare tutto com’è ora e non cambiare nulla. 

Spesso nella politica italiana queste tre argomentazioni vengono usate per criticare le decisioni imposte da partiti avversari o enti sovranazionali, come l’Unione europea. A lungo infatti Salvini ha criticato la plastic tax sostenendo per esempio che questa «non aiuta davvero l’ambiente, non è decisiva per l’erario e danneggia un settore strategico in cui l’Italia è leader» (febbraio 2021), che mette a rischio «almeno 20mila posti di lavoro» (giugno 2021), o che raddoppierà il prezzo dell’acqua minerale (ottobre 2019). 

Salvini ha spesso criticato l’imposizione di imposte che porterebbero beneficio all’ambiente, ricadendo però sui lavoratori. Nel 2019, per esempio, ha twittato: «Se penso che qualcuno vorrebbe sostenere l’ambiente aumentando le accise su carburanti per agricoltori e pescatori… è una cosa da Tso, ricovero immediato».
Figura 6. Giustizia sociale come pretesto. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 6. Giustizia sociale come pretesto. Illustrazione di Léonard Chemineau
Di idee simili anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che sempre nel 2019 ha criticato il decreto “Clima” approvato dal secondo governo Conte, sostenendo che questo strumentalizzi la «tutela dell’ambiente per massacrare di tasse [gli] italiani!»

In un’intervista a La Stampa del luglio 2021, il ministro Cingolani aveva dichiarato che la transizione ecologica potrebbe essere «un bagno di sangue», perché «per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo». Insomma, a meno che una decisione a favore dell’ambiente non porti beneficio anche a tutte le altre parti in causa, non può essere approvata perché sarebbe controproducente.

Arrendersi, o forse no

Infine, l’ultima categoria di affermazioni identificate come tipiche del climate delay sta nella tendenza ad arrendersi a un declino ormai irreversibile, in cui nulla rimane da fare per cercare di salvare la situazione. Questa tesi sembra non essersi ancora diffusa particolarmente nel discorso politico italiano, dove prevale un atteggiamento di speranza verso il futuro (o una tendenza a far finta di non vedere i problemi). 
Figura 7. Tutto è perduto. Illustrazione di Léonard Chemineau
Figura 7. Tutto è perduto. Illustrazione di Léonard Chemineau
«Si tratta di un’esagerazione: se non c’è più niente da fare, allora tanto vale non fare nulla», ha detto a Pagella Politica Stefano Caserini, docente in Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. «Questo discorso sta iniziando a emergere anche in Italia, ed è pericoloso»

Secondo Caserini, infatti, siamo ancora in tempo per cambiare le cose: «Non potremo evitare tutti i danni dei cambiamenti climatici, ma un mondo in cui la temperatura sale di 2° centigradi è diverso da un mondo in cui sale di 4° centigradi».

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