L’espressione è fra le più frequenti del giornalismo politico e torna in auge ogni volta che si parla della spartizione di incarichi fra i partiti: «È stato rispettato il manuale Cencelli».

Si evoca il “manuale Cencelli” per definire la pratica – mai passata di moda – di suddividere i ruoli di governo (ma non solo) in base al peso specifico delle forze politiche.

Da dove viene questa espressione? Ma soprattutto, esiste materialmente un “manuale Cencelli”?

Massimiliano Cencelli e la nascita del “manuale”

Il “manuale Cencelli” nasce nella Prima Repubblica ed è un prodotto della politica democristiana.

L’invenzione – casuale, come spesso accade – e quindi il nome si devono a Massimiliano Cencelli, oggi 85 anni, ex funzionario e poi politico Dc.

Nel 1968, Cencelli è il portaborse del deputato democristiano Adolfo Sarti, fra gli esponenti della corrente dei “tavianei” (dal nome del senatore Paolo Emilio Taviani), detti anche i “pontieri”. Quella stessa estate, il terzo governo di Aldo Moro entra in crisi e si prepara il secondo governo presieduto da Giovanni Leone.

Sarti chiama nel suo ufficio Cencelli, suo segretario particolare (o in altri termini “portaborse”), e gli chiede di calcolare quanti segretari sarebbero spettati alla corrente degli «amici di Taviani».

Il portaborse prende una calcolatrice elettronica e porta come risultato una suddivisione matematica degli incarichi di governo in base al peso delle correnti (che al tempo si “pesano” con le tessere e i voti nei congressi di partito), con tanto di decimali da tenere in considerazione.

«Con il quadripartito, spettando alla Democrazia cristiana quindici ministri e ventisette sottosegretari, i posti della corrente Taviani sarebbero stati rispettivamente 1,80 e 3,24; in caso di monocolore, cioè di un governo formato da tutti i ministri democristiani, agli “amici di Taviani” sarebbero spettati ministri 2,64 e sottosegretari 5,64», racconta il giornalista Renato Venditti ne “Il manuale Cencelli: Il prontuario della lottizzazione. Un documento sulla gestione del potere”, pubblicato nel 1981 da Editori Riuniti.

La pratica diventa di pubblico dominio perché Sarti, da quel momento, ai giornalisti che lo avvicinano a Montecitorio per conoscere la distribuzione dei ministeri, risponde: «Bisogna consultare il manuale Cencelli».

Eccolo qui il “manuale Cencelli”, non una vera e propria guida cartacea come farebbe pensare l’espressione, ma un metodo di calcolo ponderale.

E tuttavia qualcosa di simile al “manuale Cencelli” materialmente esiste. Lo racconta sempre Venditti nel suo saggio: «Una volta sono andato a trovarlo [Massimiliano Cencelli], gli ho spiegato che cosa mi serviva, lui ha fatto una telefonata e dopo un quarto d’ora un commesso gli ha messo sul tavolo due voluminosi dossier: sulla costa dei raccoglitori, legati ben stretti con due robuste fettucce di cotone, c’è scritta, a matita blu, la dicitura manuale Cencelli». Che cosa c’è in quelle pagine?

«In decine e decine di fogli c’è scritto e appuntato di tutto – scrive Venditti – denominazioni delle correnti democristiane, così come si venivano formando, scomponendo e ricomponendo secondo lo svolgersi delle vicende di partito. Vicino alle correnti, cifre assolute ed elaborazioni percentuali. Minute scritte a matita prima di diventare ordinatissime colonne di numeri. Accanto a ogni corrente, la cifra finale, che corrisponde al numero di ministri e sottosegretari che spettano ad ogni gruppo democristiano ogni volta che un nuovo governo è in formazione».

Secondo chi ha consultato gli appunti di Cencelli, dal 1968, quando nasce il manuale, nessuno dei successivi governi democristiani si è sottratto a questo metodo matematico di suddivisione, almeno fino all’esecutivo di Arnaldo Forlani nel 1980.

Un complicato metodo di calcolo

Non è facile dare una definizione precisa del metodo di calcolo “alla Cencelli” – così come viene utilizzato, in maniera puntuale, all’epoca dei governi democristiani – perché non si limita alla ripartizione proporzionale (se una corrente vale il 12 per cento, deve ottenere il 12 per cento dei ministeri).

Uno degli aspetti più stravaganti del Cencelli è che non si butta via niente e se a una corrente spettano 2,55 ministri, anche quel 0,55 ha una traduzione in termini di incarichi. Se è superiore a quello ottenuto dalle altre correnti, può valere un altro ministero. Alla peggio può tradursi in due sottosegretari.

Non solo, non tutti i ministeri hanno lo stesso peso nella Prima Repubblica. «Fascia di categoria A – spiega Marco Damilano in “Democristiani immaginari” – i ministeri più importanti: Interni, Esteri, Tesoro, Finanze, Industria. Fascia B: la pubblica istruzione, la Difesa, la Giustizia, la Sanità. Fascia C: Lavori pubblici, agricoltura, Lavoro. Fascia D: i ministeri senza portafoglio e Turismo e spettacolo». Un lavoro in continuo aggiornamento, riassume ancora Damilano: «Il calcolo ponderato seguiva le evoluzioni della politica: con il passare degli anni il ministero della Giustizia diventò ministero di fascia A, la Cassa del Mezzogiorno scese di categoria (erano finiti i soldi della cassa) e i Lavori pubblici salirono (erano aumentati gli appalti).

Riconoscimenti e critiche al manuale Cencelli

Chi si è occupato del “manuale Cencelli” ha riportato spesso una frase attribuita ai diari di Giulio Andreotti, che ne avrebbe detto: «Uno dei libri da dimenticare (purché lo dimentichino tutti)».

Per quanto utili a mantenere gli equilibri interni ai partiti, i riferimenti al “manuale Cencelli” sono stati utilizzati negli anni successivi anche per definire il malcostume politico di spartirsi i posti di potere, privilegiando il criterio soltanto numerico al merito.

Una dinamica che viene anche indicata con l’espressione “occupazione del potere”, attribuita in principio al costituzionalista (democristiano) Leopoldo Elia della metà degli anni Sessanta.

Il fenomeno ha dato il suo massimo fra il ’68 e il ’75, «governi che cadono come foglie, correnti che nascono e muoiono, ingovernabilità assoluta», scrive Damilano in “Democratici immaginari”. Una situazione sfociata in una moltiplicazione di “poltrone” (in questo caso il termine è opportuno) spesso spudorata: «Il record sono i 28 ministri e i 58 sottosegretari del quarto governo Rumor, ben 86 posti a disposizione. Fantasia sbizzarita. Per esempio, la creazione di un ministero per i rapporti con le Nazioni Unite». E poi ancora: «A Crescendo Mazza era andato un fantomatico ministero per gli Incarichi speciali. Fino al guizzo d’artista, il colpo di genio: il ministero per gli Enti vigilati della presidenza del Consiglio, destinato al senatore Dionigi Coppo».

Il Cencelli oggi

Non esistono forse più le tabelle, le percentuali per ogni corrente, i decimali da trasformare in sottosegretari. Ma a modo suo, il manuale Cencelli esiste ancora e viene rievocato quando ci si trova davanti una distribuzione dei ruoli apicali con in mano la bilancia dei pesi e dei contrappesi fra partiti o correnti all’interno dei partiti.

L’etichetta è stata molto evocata anche per il neonato governo Draghi. Il 25 febbraio lo stesso Massimiliano Cencelli ha detto: «Si è adottato al 100 per cento il manuale Cencelli. Draghi non sapeva dove mettere la mani, ha detto ai partiti “datemi i nomi e buonanotte”».

Al di là delle valutazioni di Cencelli, il calcolo nel governo Draghi sembrerebbe essere stato un po’ più approssimativo. Al Movimento 5 stelle, ad esempio, che nel 2018 è stato il primo partito alle elezioni politiche con quasi il 33 per cento dei voti, sono andati quattro ministri. Ma solo uno in meno, quindi tre ministeri, alla Lega e al Partito democratico, entrambi intorno al 20 per cento nel risultato elettorale.

Ciò non toglie che ci sia stata un’evidente intenzione di compensare gli equilibri di rappresentanza. Per fare un altro esempio, anche Forza Italia (intorno al 14 per cento alle elezioni del 2018) ha ottenuto tre ministeri, ma tutti senza portafoglio, quindi senza capacità autonoma di spesa (Pubblica amministrazione, Affari regionali e Sud e coesione sociale).