Il 9 agosto Italia viva ha lanciato sul suo sito una raccolta firme contro il reddito di cittadinanza, almeno nella sua forma attuale, sostenendo che la misura «non funziona», perché, tra le altre cose, il 30 per cento dei beneficiari prende il sussidio «indebitamente, per evasione o truffe».

Lo stesso dato è stato citato su La Stampa il 7 agosto in un intervento firmato dal deputato di Italia viva Luigi Marattin, secondo cui «circa 3 miliardi non andrebbero ad aiutare i più poveri, ma solo a rimpinguare le tasche dei più furbi», certificando il «flop» del reddito di cittadinanza.

Abbiamo verificato i dati e parlato con diversi esperti, tra cui l’economista autore della stima del «30 per cento»: il quale ha detto a Pagella Politica che questa statistica viene usata «strumentalmente» contro il reddito di cittadinanza.

Vediamo i dettagli.

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Qual è la fonte del dato

Nel suo articolo su La Stampa Marattin dice che la statistica del «30 per cento» è stata calcolata da Fernando Di Nicola in un articolo pubblicato il 2 luglio 2021 su lavoce.info. Di Nicola è un economista, che ha lavorato per l’Inps ed è stato in passato consigliere per le politiche fiscali al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Nella sua analisi Di Nicola si è chiesto quale sia la distribuzione del reddito di cittadinanza tra i poveri in Italia. Come abbiamo spiegato in passato, questa misura non è stata pensata per raggiungere esclusivamente i cosiddetti “poveri assoluti”, ossia quelli che secondo l’Istat non superano una determinata soglia di consumi per acquistare un insieme di beni essenziali. L’accesso al reddito di cittadinanza prende infatti in considerazione criteri diversi – per esempio il reddito familiare e il patrimonio immobiliare – rispetto a quelli utilizzati per la stima delle famiglie in condizione di povertà assoluta.

Per identificare l’insieme dei poveri per cui è stato pensato il reddito di cittadinanza, Di Nicola ha dunque utilizzato un concetto di povertà relativa, considerando come “povero” chi ha un reddito equivalente – che, semplificando, tiene conto delle dimensioni e della composizione delle famiglie – inferiore alla metà di quello mediano.

In base ai suoi calcoli Di Nicola ha quantificato che il «30 per cento» dei beneficiari del reddito di cittadinanza, pur non essendo povero in senso relativo, percepisce il sussidio «grazie all’evasione di autonomi, al sommerso totale o parziale di dipendenti e a registrazioni anagrafiche non veritiere».

Non solo: secondo Di Nicola, questo 30 per cento di beneficiari non poveri percepisce circa il 38 per cento degli assegni erogati per il reddito di cittadinanza, per un valore di circa «3 miliardi» di euro. Questa cifra è un arrotondamento: come abbiamo spiegato più di recente, tra il 2019 e il 2020 la spesa media annuale per la misura è stata di 6,7 miliardi di euro, ma per il 2021 sono stati stanziati in totale 8,6 miliardi, mentre per i prossimi anni si stima che la spesa annuale oscillerà intorno ai 7,7 miliardi l’anno. Il 38 per cento di questi valori è dunque compreso tra i 2,5 e i 3,3 miliardi.

Ma come ha ottenuto Di Nicola il dato del «30 per cento»?

Come è stato calcolato il «30 per cento»

Il calcolo è stato fatto usando uno specifico modello di microsimulazione, che – come suggerisce il nome – è uno strumento usato dagli economisti per simulare un determinato scenario prima o dopo l’introduzione di una specifica politica, in questo caso il reddito di cittadinanza, conoscendone le specifiche di funzionamento.

L’aggettivo “micro” è dato dal fatto che il modello di simulazione poggia su dati individuali e familiari. Nell’ambito del modello sviluppato all’Inps, Di Nicola ha infatti incrociato le informazioni dichiarate nelle indagini Istat sui redditi delle famiglie e quelle dichiarate al fisco, che però sono aggiornati al periodo pre-pandemia, ossia prima del 2020. Va dunque sottolineato che i dati di partenza non tengono conto dell’impatto che la crisi causata dalla Covid-19 ha avuto sui redditi delle famiglie italiane nel 2020 e nei primi mesi di quest’anno, ma rispecchiano una situazione di “normalità” per l’economia del nostro Paese. Come vedremo meglio tra poco, anche altre stime usano questi dati, perché sono comunque i più aggiornati a disposizione.

Al di là di queste osservazioni, «usare la statistica del 30 per cento per dire che il reddito di cittadinanza non funziona è un’argomentazione strumentale: il problema dell’evasione, del sommerso e delle false dichiarazioni anagrafiche sta sopra al reddito di cittadinanza e nel nostro Paese riguarda molti altri interventi pubblici», ha sottolineato lo stesso Di Nicola a Pagella Politica. «Dire che il reddito di cittadinanza non funziona e va eliminato o cambiato perché il 30 per cento lo prende indebitamente è non appare appropriato, anche se ci sono una serie di modifiche da attuare per evitare distorsioni di altro tipo» (che vedremo tra poco).

Tra l’altro, Di Nicola aveva già sottolineato questo aspetto nel suo articolo su lavoce.info – quello citato da Marattin – scrivendo: «Bisogna essere consapevoli che le distorsioni allocative operate da evasione degli autonomi e sommerso dei dipendenti sono un problema che non può essere eliminato dall’impianto normativo del reddito di cittadinanza. Questi fenomeni sono presenti in tutti i Paesi e producono, specie in Italia, significative distorsioni in tutte le forme di attribuzione di benefici». «Da questo punto di vista – ha aggiunto Di Nicola – emerge solo un motivo in più per impostare valide strategie di medio periodo che comprimano l’economia sommersa e le forti distorsioni informative delle anagrafi».

Quindi il problema, in sintesi, non è specifico per il reddito di cittadinanza ma riguarda una gran parte dei sussidi e dei benefici statali, come ci ha confermato anche Di Nicola. Se si chiede l’eliminazione del reddito di cittadinanza per via di questo problema, si dovrebbe in teoria chiedere l’eliminazione di qualsiasi sussidio o beneficio che sia caratterizzato dal medesimo problema.

Come abbiamo anticipato, questo non significa però che il reddito di cittadinanza vada bene così com’è, tant’è che lo stesso Di Nicola ha suggerito alcune modifiche per ridurre l’elevato numero di poveri che sono esclusi dalla misura, per esempio allentando i vincoli che svantaggiano gli stranieri extracomunitari (come spiega un dossier del Parlamento, il requisito di avere 10 anni di residenza in Italia è molto probabilmente incostituzionale) o i requisiti che favoriscono i single rispetto alle famiglie più numerose con minori (come sottolineato, tra gli altri, dalla Banca d’Italia).

La stima di Di Nicola sui “non poveri” che prendono il reddito di cittadinanza non è poi l’unica in circolazione e, secondo il suo autore, è molto probabilmente una sottostima.

Che cosa dice il nuovo rapporto della Caritas

A luglio è stato pubblicato un nuovo rapporto della Caritas con un monitoraggio proprio sul reddito di cittadinanza. Nel primo capitolo gli economisti Massimo Baldini, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e Giovanni Gallo, dell’Università “La Sapienza” di Roma, hanno cercato di quantificare quanti beneficiari poveri assoluti e non poveri assoluti prendano il reddito di cittadinanza.

Come abbiamo anticipato in precedenza, anche i due autori hanno sottolineato che l’insieme dei potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza non coincide con quello dei poveri assoluti (né con quello dei poveri relativi, secondo la definizione che ne dà l’Istat). Dunque hanno usato anche loro un modello di microsimulazione per dare una risposta alla loro domanda di partenza.

Basandosi sulle indagini Istat sui redditi delle famiglie, e non su quelli dichiarati al fisco, i due economisti hanno stimato che il 36 per cento delle famiglie beneficiarie del reddito di cittadinanza – sussidio che raggiunge poco meno di una famiglia povera su due – è composto da “falsi positivi”. Chi sono questi “falsi positivi”? Sono i beneficiari non poveri, nel senso assoluto visto prima, che però prendono il reddito di cittadinanza perché i criteri di accesso alla misura glielo permettono oppure perché commettono una qualche irregolarità, per esempio evadendo il fisco. Come spiegano i due autori in una nota, dai dati in loro possesso non è possibile quantificare il contributo singolo di questi due aspetti separati, ma il loro contributo nel complesso.

«Dalle stime emerge che circa un terzo delle famiglie beneficiarie del reddito di cittadinanza non sono in verità da considerare povere assolute nel complesso del territorio nazionale», si legge nel rapporto Caritas. «Come atteso, questa problematica risulta maggiormente diffusa tra le famiglie di piccola dimensione e, anche se in misura minore, tra quelle che risiedono nel Mezzogiorno».

Anche in questo caso, le stime vanno prese con la dovuta cautela. «Un certo livello di incertezza c’è sempre quando si fanno microsimulazioni di questo tipo, perché i dati che si utilizzano, per esempio, possono essere parziali e non aggiornati, e perché dipendono dalle ipotesi alla base dei modelli», ha spiegato a Pagella Politica Gallo. «Questo non significa che le stime che circolano siano sbagliate, ma che hanno tutte un certo intervallo di confidenza. In ogni caso una determinata percentuale di falsi positivi in una misura di contrasto della povertà è fisiologica ed è presente in molti Paesi dell’Unione europea».

In più c’è anche un problema di trasparenza. «Per il reddito di cittadinanza è molto difficile ottenere dei dati che vadano al di là di quelli contenuti pubblicamente nell’Osservatorio dell’Inps», ha detto a Pagella Politica Baldini. «In ogni caso, il concetto di “povertà assoluta” dell’Istat non coincide con quello di “povertà” a cui mira il reddito di cittadinanza. Per questo motivo possono esserci single, che non sono poveri in senso assoluto, che prendono il reddito avvantaggiati da come è disegnata la misura, e viceversa famiglie numerose e povere che sono tagliate fuori. Su questi aspetti si può agire, perché dipendono da come è disegnata la misura, mentre evasione e truffe sono un elemento strutturale, che non si modificano cambiando il reddito di cittadinanza».

In generale, gli esperti contattati da Pagella Politica sono stati concordi nel sottolineare come uno dei problemi più gravi del reddito di cittadinanza sia quello di lasciare scoperti ancora troppi poveri. Su questo punto concorda anche uno studio della Banca d’Italia, uscito a settembre 2020, che – anche qui con una microsimulazione – ha stimato come circa la metà delle famiglie in povertà assoluta non sia tra i beneficiari della misura.

In conclusione

Italia viva e Luigi Marattin si sono schierati contro il reddito di cittadinanza, almeno nella sua forma attuale, dicendo che la misura non funziona perché, tra le altre cose, il 30 per cento dei beneficiari prende il sussidio indebitamente, evadendo il fisco o truffando.

Abbiamo verificato e questa percentuale è una stima che, secondo il suo stesso autore, un economista ex dirigente dell’Inps e del Ministero dell’Economia, viene usata «strumentalmente» contro il reddito di cittadinanza. Secondo le simulazioni di Fernando Di Nicola, un beneficiario su tre del reddito di cittadinanza non è povero, in un senso relativo del termine, ma prende il sussidio grazie, per esempio, all’evasione o a dichiarazioni anagrafiche non veritiere. Il punto centrale da capire è però che questo fenomeno non è tipico del reddito di cittadinanza, ma riguarda in generale i sussidi e i benefici che eroga lo Stato italiano. Dunque non può essere eliminato dall’impianto normativo del reddito di cittadinanza in quanto è una caratteristica generale dell’Italia nel complesso.

Altre stime sostengono che una parte dei beneficiari del reddito di cittadinanza non sia composta da poveri in senso assoluto, ma prenda il sussidio grazie ai suoi criteri di accesso. In questo caso, modificare i criteri di accesso potrebbe permettere di far sì che il reddito di cittadinanza raggiunga quel gran numero di poveri in senso assoluto che ancora oggi non percepiscono il sussidio.