Il 6 luglio, in un video pubblicato sul canale YouTube del suo partito Azione, l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha commentato (min. 0:23) un emendamento al decreto “Rilancio” sulle concessioni balneari, approvato il 4 luglio in Commissione di Bilancio alla Camera e che vedremo nel dettaglio tra poco.

Secondo Calenda, l’Italia incassa ogni anno dalle concessioni balneari «100 milioni di euro», una cifra che ritiene troppo bassa, considerati i guadagni del settore e il rinnovo senza gara delle concessioni. Il leader di Azione ha fatto poi l’esempio di uno stabilimento lussuoso di Capalbio (Toscana), che sarebbe in grado di coprire con il costo di un abbonamento estivo le spese di tutta la concessione annuale.

I dati che cita il leader di Azione sono corretti o no? Abbiamo verificato e Calenda ha ragione, ma prima diamo un po’ di contesto su che cosa siano le concessioni balneari e perché si discute molto di un emendamento al decreto “Rilancio”.

Che cosa sono le concessioni balneari, in breve

In Italia le spiagge fanno parte del demanio, vale a dire l’insieme di beni che sono di proprietà dello Stato e che hanno la caratteristica di non poter essere venduti o ceduti a privati in nessun caso. Tuttavia, lo Stato ha la facoltà di permettere a soggetti privati l’uso di beni del demanio tramite lo strumento della concessione.

In teoria, la concessione viene data tramite un bando di gara pubblico e permette al privato di disporre del bene per un certo periodo di tempo a fronte del pagamento di un canone, in modo simile a un contratto di affitto. Allo scadere del termine, lo Stato dovrebbe indire una nuova gara per la concessione.

In pratica, come analizzeremo meglio più avanti, un decennale problema del nostro Paese – che ha portato anche lo scontro con l’Unione europea – è che nello specifico le concessioni balneari di fatto non vengono mai messe a gara. E qui entra in campo la questione dell’emendamento al decreto “Rilancio”.

L’emendamento Bergamini

L’emendamento al decreto “Rilancio” in tema di concessioni balneari (emendamento all’articolo 182) è stato presentato dalla deputata di Forza Italia Deborah Bergamini (che si è successivamente anche difesa dalle critiche di Calenda).

Questo emendamento vietava esplicitamente alle amministrazioni locali di adottare qualunque procedimento volto a revocare le concessioni esistenti e abrogava i canoni pertinenziali, cioè quelli che colpiscono le strutture permanenti di proprietà dello Stato presenti nella concessione (ad esempio opere in muratura, dentro cui si può trovare un bar o un ristorante) e che vengono calcolati sulla base dei parametri Omi, ossia dell’Osservatorio che stabilisce i valori degli affitti nella zona (sono normalmente più costosi dei normali canoni tabellari, calcolati in base ai metri quadrati).

La parte sui canoni pertinenziali è stata eliminata in seguito a un intervento della Ragioneria generale dello Stato, che aveva rilevato la mancanza di coperture, ma il resto dell’emendamento è poi entrato nel testo definitivo trasmesso dalla Camera al Senato il 9 luglio, andando a rassicurare i concessionari che la proroga delle concessioni al 2033 – già decisa dal governo Movimento 5 Stelle e Lega, come spiegheremo più avanti – è stata confermata.

Veniamo adesso alle cifre indicate da Calenda.

Il costo di una concessione balneare

Per scoprire quanto effettivamente l’Italia incassi dalla riscossione dei canoni per le concessioni balneari, facciamo riferimento al Documento di economia e finanza del 2017, che cita dati del 2016, contenuti anche nel “Report Spiagge 2019” elaborato da Legambiente. Il Def 2017 è la fonte più autorevole e recente sul tema in questione.

Secondo i dati del documento, in Italia nel 2016 c’erano quasi 21.400 impianti turistico-ricreativi sul demanio marittimo e fluviale, che garantivano con le concessioni un introito per le casse dello Stato di 103 milionidi euro.

Il 27 aprile 2017, in un’interrogazione parlamentare, l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva confermato questa cifra, specificando che «gli introiti dello Stato delle concessioni demaniali» erano «per il 2016 pari a euro 103.232.870».

Dunque quando Calenda dice che l’Italia riceve da tutte le concessioni 100 milioni di euro», cita un dato corretto, anche se riferito a quattro anni fa.

Stabilimenti balneari e gare, un problema decennale

Il leader di Azione nella sua critica all’emendamento argomenta poi che le concessioni restano sempre nelle stesse mani e che «non vanno mai a gara». Anche questo è vero, come abbiamo già anticipato più sopra.

La normativa italiana – come ha spiegato un rapporto del Parlamento europeo del 2017 sulle concessioni balneari in Italia e il contesto europeo – ha sempre avuto la tendenza a preferire la proroga delle concessioni alla loro messa a gara.

Questa situazione ha portato l’Italia in conflitto con la normativa europea, in particolare con la Direttiva Bolkestein (direttiva dell’Unione europea 2006/123/CE) , che prevede in tutti i Paesi Ue l’assegnazione di concessioni e servizi pubblici a privati solo tramite gare pubbliche aperte a ogni operatore europeo. Questa direttiva è stata pensata per tutelare la concorrenza e facilitare la circolazione di servizi all’interno dell’Ue, in vista di una maggiore integrazione del mercato interno europeo.

Sulle concessioni del demanio marittimo il braccio di ferro tra Italia e Unione Europea si protrae ormai da anni.

Fino al 2009 nel nostro Paese era previsto il diritto di insistenza, in base al quale al concessionario uscente veniva offerto un regime preferenziale nel rinnovo della concessione.

Come spiega il citato rapporto del Parlamento Ue, a seguito dell’apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione Ue questo diritto era stato formalmente abrogato a fine 2009, per poi essere reinserito nelle vesti di un rinnovo automatico delle concessioni demaniali di sei anni in sei anni. Questo ha portato di nuovo a uno scontro con la Commissione Ue, oggi ancora in corso.

Come abbiamo spiegato nel nostro progetto Traccia il Contratto, tra le promesse mantenute da M5s e Lega al governo c’era proprio il superamento degli effetti della Direttiva Bolkestein. Nella legge di Bilancio per il 2019 era stato infatti inserito il prolungamento di 15 anni della durata delle concessioni del demanio marittimo senza la necessità di essere a gara almeno fino al 2033.

L’emendamento al decreto “Rilancio”, a prima firma della deputata di Forza Italia Bergamini, ha accolto le istanze dei rappresentanti dei balneari, ribadendo e rafforzando quanto già disposto dalla legge di Bilancio per il 2019 (anche dopo lo stralcio della parte sui canoni pertinenziali di cui abbiamo brevemente accennato).

Chiarito quanto incassa lo Stato dalle concessioni che non vengono mai messe a gara, vediamo quanto pagano in canoni gli stabilimenti balneari rispetto al loro giro d’affari.

Canoni irrisori?

All’interno dell’estratto della legge di Bilancio per il 2019 è stata anche sollevata (art. 1, co. 677) la questione della «revisione e l’aggiornamento dei canoni demaniali», da risolversi però in futuro.

Nell’interrogazione parlamentare del 27 aprile 2017, il ministro Padoan aveva riferito che «l’ammontare medio per concessione e chilometro quadrato dei canoni annui per le sole concessioni rilasciate in ambito demaniale marittimo spettanti allo Stato nell’anno 2016» era pari a 6.106 euro.

È una cifra consona o irrisoria, come sostiene Calenda? Sulla questione il dibattito è aperto.

Da un lato, tra i sostenitori di un aumento dei canoni troviamo persino un concessionario come Flavio Briatore, che nel 2019 sosteneva che il prezzo per la concessione del suo stabilimento, il Twiga (Toscana), fosse troppo basso rispetto ai suoi introiti.

Dall’altro lato, ci sono gli imprenditori balneari che fanno notare che «le cifre richieste dallo Stato non sono basse per tutti, bensì squilibrate» e che «intervistare Briatore significa rappresentare l’1 per cento degli imprenditori balneari […] che ragionano diversamente rispetto al 99 per cento dei loro colleghi».

Nel “Report Spiagge 2019”, Legambiente ha elaborato – su dati di Comuni e Regioni relativi al 2018 – quanto pagano in canoni annuali alcuni famosi stabilimenti balneari italiani.

Per esempio, il Luna Rossa di Gaeta verserebbe 11.800 euro; il Bagno azzurro di Rimini 6.700 euro; l’hotel Cala di Volpe a Porto Cervo 520 euro sulla spiaggia di Liscia Ruja.

Il giro d’affari negli stabilimenti balneari

A questo punto non resta che verificare quali sono i prezzi che gli stabilimenti balneari applicano ai clienti, alla luce dei canoni che versano.

Secondo le stime dell’Associazione nazionale per la difesa e l’orientamento dei consumatori (Adoc) – citate anche da Legambiente – nel 2019 in media una famiglia in Italia ha speso 26 euro per una giornata al mare, 697 euro per un abbonamento nel mese di agosto e 1.718 euro per un abbonamento per l’intera stagione (tre mesi). Di seguito riportiamo i dati completi di Adoc, in cui i prezzi medi degli stabilimenti balneari sono suddivisi per regione, basandosi sul costo del noleggio di un ombrellone con un lettino e una sdraio, per una famiglia di 3-4 persone.

Il valore del giro d’affari degli stabilimenti balneari, complessivamente, è stato stimato intorno ai 15 miliardi di euro, secondo uno studio della società di consulenza Nomisma che viene citato nel report di Legambiente.

Per quanto riguarda l’esempio specifico fatto da Calenda, sullo stabilimento «più vip» di Capalbio (Toscana), possiamo verificare se sia credibile l’affermazione per cui con un solo ombrellone il concessionario può recuperare, più o meno, tutta la spesa annuale del canone versato lo Stato.

Abbiamo verificato che al lido “L’Ultima Spiaggia” di Capalbio, fra i più conosciuti della zona, un ombrellone costa sui 55 euro al giorno, che per quattro mesi estivi di stagione balneare corrispondono a un incasso di oltre 6 mila euro. Secondo i dati di Legambiente, il canone che lo stabilimento paga allo Stato è di 6.098 euro.

Calenda fa dunque una stima sostanzialmente corretta.

Il verdetto

Il leader di Azione Carlo Calenda ha criticato l’approvazione di un emendamento al decreto “Rilancio” che ha rafforzato la proroga – stabilita dal governo M5s-Lega – fino al 2033 del rinnovo delle concessioni balneari senza essere messe a gara.

Secondo Calenda, l’Italia incassa «100 milioni di euro» da «tutte le concessioni», che «non vanno mai a gara». L’ex ministro dello Sviluppo economico sostiene anche che gli stabilimenti «più vip» possono finanziare il pagamento dei loro canoni annui con i guadagni di un solo ombrellone in una stagione estiva.

Abbiamo verificato e, al di là del giudizio politico sull’emendamento in questione, il leader di Azione riporta i fatti correttamente.

Secondo i dati più aggiornati, nel 2016 lo Stato ha incassato circa 103 milioni di euro dalle concessioni balneari, su cui da anni c’è uno scontro tra Italia e Ue perché vengono rinnovate senza essere messe a gara.

È vero poi che i canoni annui pagati dagli stabilimenti sono bassi se paragonati ai costi di un singolo ombrellone, anche se, come hanno sottolineato alcuni rappresentanti degli imprenditori balneari, questo vale soprattutto per gli stabilimenti più ricchi e meno per gli altri.

In conclusione, Calenda si merita comunque un “Vero”.