In campagna elettorale, Matteo Salvini ha più volte detto che il taglio del costo della benzina sarebbe stato tra i suoi primi provvedimenti al governo.

Il segretario della Lega ha giustificato questa dichiarazione d’intenti come una questione di buon senso: bisogna eliminare una parte delle vecchie accise – la più antica delle quali sarebbe stata introdotta durante la guerra in Etiopia del 1935 – per ridurre il prezzo del carburante in Italia, tra i più alti in Europa.

Salvini non è il primo politico a proporre una misura simile. Tra gli ultimi in ordine temporale c’è anche Matteo Renzi. Nel 2014, l’ex presidente del Consiglio aveva detto a Porta a Porta che avrebbe tagliato le accise sulla benzina, e che entro la fine di quell’anno anno avrebbe eliminato “tutte le voci ridicole come quella per la guerra d’Etiopia”.

Il tema torna ciclicamente nel dibattito pubblico, sia in televisione che nei quotidiani italiani e internazionali. In realtà, l’argomento è complesso e si presta a interpretazioni errate e incomprensioni. Vediamo quindi se Salvini ha ragione o meno.

Come funziona il prezzo della benzina

Partiamo da una domanda fondamentale: come si calcola il costo della benzina che paghiamo quando andiamo in una qualsiasi stazione di rifornimento?

Secondo l’ultima rivelazione del Ministero dello Sviluppo economico (datata 19 marzo 2018), i prezzi nazionali (ogni 1.000 litri) dei carburanti sono quelli riportati nella tabella seguente.



Come si vede dalle colonne della tabella, il costo della benzina è – semplificando – determinato da tre fattori. Il prezzo al netto delle imposte è quello deciso da chi vende il combustibile. Al suo interno ci sono anche i guadagni di chi gestisce la pompa e il costo del trasporto logistico. Il secondo fattore è l’Iva, ossia l’imposta sul valore aggiunto.

Il terzo elemento che influenza il prezzo della benzina è l’accisa. Quest’ultima è un’imposta indiretta, “che colpisce determinati beni (oli minerali, energia elettrica, alcolici, tabacchi) al momento della produzione o del consumo”. A differenza dell’Iva, che incide sul valore, un’accisa si basa sulla quantità dei beni prodotti. In questo caso, come segnala l’ultimo aggiornamento (del 1° gennaio 2017) dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, è un’imposta di 728,40 euro ogni 1.000 litri di benzina.

Questo meccanismo vale, in linea di massima, per tutti i Paesi del mondo e dell’Unione europea. In entrambi i casi, l’Italia è in cima alle classifiche per il prezzo della benzina e il livello delle accise.

Secondo la graduatoria del Global Petrol Prices (aggiornata al 19 marzo 2018), l’Italia è infatti il quinto Paese più caro al mondo dove fare un pieno alla propria auto, a parimerito con la Grecia e il territorio francese di Wallis e Futuna (nel Pacifico). Le prime quattro posizioni sono occupate, in ordine crescente, da Monaco, Hong Kong, Norvegia e Islanda.

Nell’Unione europea, solo i Paesi Bassi e il Regno Unito hanno imposte indirette più alte dell’Italia rispettivamente sulla benzina (786,39 euro per 1.000 litri nei Paesi Bassi contro i 728 italiani) e sul gasolio (661,58 euro per 1.000 litri contro i 617 italiani).

Chi determina il valore dell’accisa

Ma chi stabilisce il valore di questa accisa? Da anni, è diffusa la credenza che questa imposta sia la somma di aumenti bizzarri e anacronistici, come riportato per esempio dalla pagina di Wikipedia sull’argomento, da questa pubblicazione dell’Unione petrolifera italiana e anche da questo articolo sul sito del ministero delle Finanze.

In un video sul suo canale ufficiale di YouTube, Salvini elenca le otto accise più antiche, promettendo di eliminare le prime sette una volta al governo:

● accisa di 0,000981 euro al litro: finanziamento della guerra d’Etiopia del 1935-1936;

● accisa di 0,00723 euro al litro: finanziamento della crisi di Suez del 1956;

● accisa di 0,00516 euro al litro: ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963;

● accisa di 0,00516 euro al litro: ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966;

● accisa di 0,00516 euro al litro: ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968;

● accisa di 0,0511 euro al litro: ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976;

● accisa di 0,0387 euro al litro: ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980;

● accisa di 0,106 euro al litro: finanziamento della guerra del Libano del 1983;

Se sommiamo il valore delle prime sette, otteniamo come risultato 11,34 centesimi di euro, vicini ai 10 centesimi indicati da Salvini come potenziale riduzione del prezzo della benzina. Il leader della Lega sembra dunque avere ragione, ma un’analisi più approfondita mostra che la sua dichiarazione ha due limiti.

Le singole accise non esistono da oltre vent’anni

Il primo limite riguarda la natura dell’accisa, che è regolamentata da una disciplina complessa e stratificata, contenuta principalmente nel Testo Unico, definito dal decreto legislativo del 1995.

È vero che nei decenni passati i governi hanno fatto uso di queste imposte indirette per fare cassa e fronteggiare emergenze, naturali e non. Ma da oltre vent’anni, non esistono più le singole accise sul costo della benzina, che da aumenti straordinari sono stati resi ordinari e strutturali.

Come ci ha confermato il ministero dello Sviluppo economico in un nostro precedente articolo, dal 1995 l’accisa sul carburante è definita in modo unitario e il gettito che ne deriva non finanzia il bilancio statale in specifiche attività, ma nel suo complesso.

In altre parole, oggi c’è una sola aliquota, che non distingue tra le diverse componenti. Dagli inizi degli anni Novanta, il valore di questa imposta è stato cambiato dai governi in diverse occasioni. Come evidenziato in questa tabella dell’Unione petrolifera italiana, nel 1995, l’accisa sulla benzina era di 0,518 euro, prima di salire a 0,542 euro nel 1999 e riscendere a 0,520 euro nel 2000. Da qui, il valore di questa imposta indiretta è sempre salito, fino a toccare il massimo storico nel 2014, quando si pagavano 730,80 euro di accisa per 1.000 litri di carburante.

Perché non è vero che paghiamo ancora la guerra di Etiopia

Riferirsi a introduzioni passate delle accise è quindi improprio. Si potrebbe però obiettare che il ragionamento di Salvini sulle accise vale lo stesso, anche se non si possono più suddividere singolarmente. Basta dire che ogni aumento dell’imposta totale nei decenni passati corrisponde a un’accisa della lista.

Qui entra in gioco il secondo limite del ragionamento, e riguarda nello specifico proprio il conflitto iniziato nel 1935 dal governo fascista di Benito Mussolini. È falso infatti dire che gli italiani ancora contribuiscono per il finanziamento della guerra in Etiopia.

Il 12 settembre 1936, a quattro mesi dalla fine del conflitto, il quotidiano La Stampa pubblica un articolo che parla della cancellazione dell’aumento del costo della benzina introdotto per far fronte alle spese belliche. Come riporta anche Maurizio Codogno in un post sul suo blog, l’articolo di giornale dice: “Con R.D.L. che viene oggi pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale del Regno, la tassa di vendita sulla benzina che in data 21 luglio u.s. era stata già ridotta da lire 361 a lire 240 per quintale, viene ricondotta alla misura normale di lire 161 vigente prima del 30 agosto 1935”.

È vero che prima dell’inizio della guerra il prezzo della benzina era quasi raddoppiato. Ma queste accise poi sono state tolte l’anno seguente.

Il verdetto

In coerenza con un programma di centrodestra che punta al taglio delle tasse, Salvini può promettere di abbassare il costo della benzina e di ridurre di 10 centesimi il valore dell’accisa. Quando però si fa riferimento a quest’ultima, bisogna farlo tenendo conto del suo valore unitario, che come gettito fiscale porta nelle casse dello Stato 7,470 miliardi di euro l’anno (dati 2016, fonte: ministero dello Sviluppo economico e Unione petrolifera*).

Il leader della Lega commette due errori nel dichiarare che cancellerà le sette accise più antiche sul prezzo della benzina, a iniziare da quella sulla guerra di Etiopia. È improprio dire che si elimineranno imposte che non esistono più dal punto di vista legislativo da oltre vent’anni ed è falso sostenere che esista un’imposta cancellata oltre ottant’anni fa. Per questo motivo, il verdetto per Salvini è “Pinocchio andante”.