Il 13 dicembre, durante un incontro in videostreaming con alcune scuole, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha ripetuto per due volte che a livello mondiale il 4 per cento delle emissioni di Co2 viene dall’«intero comparto digitale», di cui una «buona metà» dall’uso «smodato» dei social network. In più, secondo il ministro, un’email con un peso di un megabyte produrrebbe la stessa quantità di Co2 emessa da una «lampadina da 600 watt accesa per 33 minuti».

Come abbiamo spiegato più estesamente in un fact-checking per Green&Blue – il verticale di Repubblica dedicato all’ambiente – i dati citati da Cingolani sono poco affidabili. E non è la prima volta che il ministro incappa in uno scivolone simile.

Gli errori nella dichiarazione di Cingolani sono almeno due. Innanzitutto, la fonte della stima del «4 per cento» è un report del 2019 di un centro studi francese, che ha cercato di quantificare l’impatto delle tecnologie digitali, considerando le reti di telecomunicazioni, i data center con i server, i terminali (tra cui i computer, gli smartphone e le televisioni) e i sensori dell’internet of things, con cui oggetti di uso quotidiano possono essere collegati alla rete. Questa stima va presa con molta cautela: non proviene da una pubblicazione scientifica ed è stata ridimensionata da diversi esperti e altri studi. Da nessuna parte poi viene detto che una «buona metà» di questo «4 per cento» di emissioni verrebbe dall’uso dei social.

In secondo luogo, anche il confronto tra l’email e la lampadina non poggia su basi solide. La fonte sembra essere una dichiarazione del 2018 di un’informatica francese, ma non sono chiari i conti e le assunzioni alla base del calcolo. Da tempo circolano stime simili a quelle citate dal ministro, che sembrano però essere datate e parecchio spannometriche.

In conclusione, Cingolani si merita di nuovo un “Pinocchio andante”.