Il 28 maggio il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra – eletto in Senato con il Movimento 5 stelle ma espulso dal gruppo parlamentare a causa del mancato sostegno al governo Draghi – ha commentato il caso della assoluzione del sindaco di Lodi, Simone Uggetti, e delle scuse fatte da Luigi Di Maio per la «gogna» a cui fu sottoposto nel 2016.

Tra le altre cose, Morra ha sostenuto (min. 5:30) che in Italia si può essere privati della libertà personale «solo e soltanto» se c’è una richiesta del pubblico ministero (pm) convalidata dal giudice per le indagini preliminari (gip), che la ritiene fondata.

Morra commette un’imprecisione, anche se quanto afferma non è del tutto sbagliato. In Italia è infatti possibile, e accade spesso, che si venga privati della libertà personale per un periodo limitato di tempo, anche senza che pm e gip vengano coinvolti.

Andiamo a vedere i dettagli.

Come funziona normalmente la privazione della libertà

Morra, si desume dal contesto della sua affermazione, sta parlando della privazione della libertà in via cautelare e non come pena al termine di un processo.

Il normale funzionamento della giustizia penale, se non ci sono esigenze cautelari (su cui torneremo tra poco), prevede infatti che la privazione della libertà arrivi, se l’imputato viene riconosciuto colpevole, al termine dei tre gradi di giudizio, come pena da scontare. La pena più severa prevista dalla legge è la reclusione in carcere ma sono possibili altre forme di privazione della libertà personale, come ad esempio scontare la pena ai domiciliari.

È però possibile che ci siano delle esigenze cautelari da tenere in considerazione. Queste, nell’ordinamento italiano, sono sostanzialmente riconducibili a tre categorie: il pericolo di fuga dell’indagato, il pericolo di inquinamento delle prove e il pericolo di reiterazione del reato.

Un pericolo di questo tipo (in gergo giuridico periculum in mora) da solo non è comunque sufficiente perché vengano disposte le misure cautelari. Serve anche la convinzione da parte del giudice che la colpevolezza dell’indagato sia quantomeno probabile e che dunque esista un diritto (ad esempio il diritto alla vita della vittima scampata a un tentato omicidio) che necessita di essere protetto con la misura cautelare (in gergo giuridico, fumus boni iuris).

Se questi presupposti ci sono, è possibile essere privati della libertà non come pena ma come misura cautelare. Al 31 dicembre 2020 il 32 per cento circa dei detenuti presenti nelle carceri italiane (16.840 detenuti indagati su 53.364 detenuti totali) è stato privato della libertà e recluso in carcere per via di una misura cautelare.

Arriviamo così a quanto dichiarato da Morra.

Il procedimento per l’applicazione delle misure cautelari

A chiedere le misure cautelari è sempre il pubblico ministero – il magistrato inquirente che porta avanti l’accusa – e il giudice non può agire di sua iniziativa. Inoltre il giudice non può disporre una misura cautelare più grave di quella richiesta dal pm (ad esempio, se il pm chiede gli arresti domiciliari il giudice non può comminare la reclusione in carcere).

Il gip, citato da Morra, è il giudice delle indagini preliminari, si occupa principalmente di autorizzare gli atti di questa fase del processo (come misure cautelari o sequestri, perquisizioni e via dicendo) ed è lui che decide sulla richiesta del pm di rinviare a giudizio l’indagato. Le misure cautelari possono essere disposte dal gip, ma non solo. Le esigenze cautelari possono infatti emergere anche in fasi successive del processo.

Dunque il giudice (gip o meno) valuta la richiesta del pm, che deve essere motivata. Se ritiene di accoglierla, emette un’ordinanza che dispone la misura cautelare, dove sono riassunti i motivi della sua decisione e viene stabilito un termine. Le misure cautelari hanno una durata massima per ogni fase del procedimento, legata alla gravità del reato per cui si procede.

Morra ha insomma ragione per quanto riguarda la procedura che viene normalmente seguita per privare una persona della libertà personale in via cautelare. Ma commette un’omissione abbastanza importante, resa più evidente dall’enfasi che il senatore pone sul fatto che in Italia si può essere privati della libertà personale «solo e soltanto» se c’è richiesta del pm e convalida del giudice (non per forza un gip, come detto).

Quando si rischia di perdere la libertà personale senza un intervento di pm e giudice

La prassi quotidiana della giustizia penale crea molto spesso situazioni in cui le persone possono essere private della libertà personale senza che pm e giudici vengano coinvolti in un primo momento. Questo avviene sulla base di quelle che vengono chiamate “misure precautelari”. Si tratta del fermo e dell’arresto.

Senza entrare eccessivamente nei dettagli, l’arresto avviene normalmente in flagranza (in parole semplici, il colpevole viene beccato con le mani nel sacco) o in quasi flagranza (sono evidenti i segni del reato appena commesso, come essere a pochi passi da un negozio svaligiato con addosso la refurtiva e i ferri del mestiere). Il fermo viene invece disposto di norma dal pm anche quando non c’è flagranza ma c’è comunque pericolo di fuga, e può eccezionalmente essere disposto dalla polizia giudiziaria se il pm non ha ancora assunto la direzione delle indagini o se c’è pericolo di fuga in attesa della decisione del pm.

Vediamo ora la limitazione della libertà personale nel caso più semplice: la polizia che coglie in flagrante l’autore di un reato (ad esempio uno scassinatore che sta forzando l’entrata di un negozio), lo pone in stato di arresto e lo priva della libertà personale. Entro 24 ore l’arrestato deve essere messo a disposizione del pm, che entro 48 ore dall’arresto deve chiedere – se non ritiene di dover liberare l’arrestato – al giudice di fissare l’udienza di convalida, che deve essere tenuta entro le 48 ore successive.

È insomma possibile che una persona venga privata della propria libertà personale per 24 ore senza che venga coinvolto un magistrato (per quanto rappresentante dell’accusa, come nel caso del pm) e per 96 ore prima che veda la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa davanti a un giudice.

Per quanto giustificata da ragioni di urgenza e regolamentata, questa è sicuramente un’eccezione a quanto affermato da Morra circa il fatto che non si possa perdere la libertà personale se non per via di una decisione congiunta di pm e gip.

Il verdetto

Il senatore dissidente del M5s Nicola Morra il 28 maggio ha sostenuto che in Italia si viene privati della libertà personale «solo e soltanto» se c’è una decisione in tal senso di pm e gip.

L’affermazione non è del tutto scorretta: quello descritto da Morra è il normale funzionamento dell’applicazione delle misure cautelari, che privano la persona che le subisce della libertà personale.

Tuttavia la dichiarazione è imprecisa, in quanto non tiene in considerazione il caso di arresti e fermi (eseguiti dalla polizia giudiziaria senza una decisione a monte del pm), che vengono solo successivamente approvati dal pm e convalidati dal giudice.

Nel complesso per Morra quindi un “Nì”.