Il 25 maggio il presidente del Consiglio Mario Draghi, al termine di una riunione speciale del Consiglio europeo, ha parlato alla stampa da Bruxelles. Prima di rispondere alle domande dei giornalisti Draghi ha commentato l’andamento della campagna vaccinale in Europa sostenendo che, al momento, l’Unione esporta all’incirca tanti vaccini quanti ne produce mentre gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri Paesi «non permettono alcuna esportazione» (min. 3:28).

Non è la prima volta che politici e rappresentanti dell’Unione europea accusano altri Paesi di bloccare le esportazioni: già il 9 marzo il presidente del Consiglio europeo Charles Michel aveva accusato proprio gli Stati Uniti e il Regno Unito di aver imposto un «chiaro divieto per l’esportazione di vaccini o di loro componenti prodotti sul territorio nazionale». Al contrario, secondo Michel, l’Unione europea «non ha mai smesso di esportare».

Le accuse avevano causato tensioni diplomatiche ed erano state definite «completamente false» dal segretario di Stato britannico Dominic Raab e dal primo ministro Boris Johnson. La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki aveva invece affermato che i produttori che operano negli Stati Uniti sono liberi di esportare i vaccini, a patto che riescano comunque a tener fede agli impegni presi con il governo americano.

Ma come stanno davvero le cose? Abbiamo controllato e Draghi ha sostanzialmente ragione sull’Europa, ma è impreciso sugli altri Paesi. Vediamo perché.

L’export europeo

Il 30 gennaio l’Unione europea ha avviato un sistema di controllo per limitare l’export di vaccini, rafforzato poi il 24 marzo e in vigore almeno fino alla fine di giugno. Il meccanismo è basato sui principi di proporzionalità e reciprocità: l’export di vaccini è autorizzato soltanto verso Paesi in condizioni epidemiologiche peggiori rispetto a quelle europee, e dove non è attivo alcun divieto per l’export di vaccini o altre materie prime necessarie per la produzione dei farmaci.

Per esportare vaccini prodotti nell’Unione europea le case farmaceutiche devono richiedere l’approvazione dello Stato in cui ha sede l’impianto di produzione, che si consulterà poi con la Commissione europea. Secondo fonti di stampa a inizio aprile l’Unione aveva ricevuto 491 richieste di esportazione e soltanto una era stata bloccata, su iniziativa proprio dell’Italia: si trattava di una fornitura da 250 mila dosi di vaccino AstraZeneca richiesta a inizio marzo dall’Australia, che però si trovava in condizioni decisamente migliori rispetto a quelle italiane per quanto riguarda la gestione dell’epidemia.

Il 6 maggio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato in una nota stampa che fino a quel momento nell’Unione erano state distribuite 200 milioni di dosi, e altrettante ne erano state esportate: «L’Europa esporta tanti vaccini quanti ne distribuisce ai suoi cittadini» ha detto von der Leyen.

L’affermazione di Mario Draghi è quindi confermata da fonti europee, ma non è disponibile un database dettagliato che renda conto delle esportazioni gestite dall’Unione. Per avere un’ulteriore conferma Pagella Politica ha contattato Airfinity, una società di analisi scientifica basata a Londra che fornisce consulenza a governi, aziende farmaceutiche, investitori e mezzi di informazione. La società tiene traccia dall’andamento delle operazioni riguardo alle vaccinazioni contro la Covid-19 in diversi Paesi in base a dati pubblicamente consultabili.

Secondo Airfinity al 12 maggio l’Unione europea aveva prodotto circa 320 milioni di dosi e ne aveva esportate 111 milioni: il 35 per cento. È però possibile che von der Leyen abbia conteggiato tra le dosi esportate anche quelle per cui sono già stati presi accordi ma che, di fatto, non sono ancora state inviate all’estero. In ogni caso, come vedremo, la percentuale di esportazioni dell’Ue rimane nettamente superiore rispetto a quella del Regno Unito e degli Stati Uniti.

Il Regno Unito

Guardando alle comunicazioni ufficiali non risulta che il Regno Unito, recentemente uscito dall’Unione europea, abbia mai attivato un vero e proprio divieto sulle esportazioni di vaccini contro la Covid-19. Le (poche) informazioni disponibili a riguardo però indicano che effettivamente il Paese non sta esportando quantità rilevanti di vaccini.

Il 10 marzo il presidente del Consiglio europeo Charles Michel – nel corso dello scambio diplomatico piuttosto acceso di cui abbiamo parlato – ha invitato il Regno Unito a rilasciare i dati riguardanti il numero e la destinazione delle dosi esportate, ma il governo britannico non ha seguito la richiesta. Incalzato dall’edizione europea del sito di informazione americano Politico, il governo ha detto che per avere informazioni è necessario rivolgersi alla casa farmaceutica AstraZeneca, ma la società non ha mai risposto.

Secondo Airfinity, al 12 maggio il Regno Unito aveva prodotto 27 milioni di dosi e ne aveva esportate appena 300 mila: l’1 per cento del totale.

Anche se nel Regno Unito non è in vigore un vero e proprio blocco sulle esportazioni dei vaccini, il Paese ha comunque imposto il divieto di esportazione su alcuni medicinali che possono essere utili, o si pensava potessero esserlo, per curare la Covid-19: tra questi troviamo l’idrossiclorochina, bloccata il 13 marzo 2020 – ed elogiata pochi giorni dopo dall’allora presidente americano Donald Trump come un «punto di svolta» nella cura del nuovo coronavirus, ma poi sconsigliata dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema) – o il vaccino antinfluenzale, considerato un importante strumento per ridurre la pressione sui sistemi sanitari alle prese con la Covid-19.

Il Regno Unito quindi non ha bloccato formalmente le esportazioni, come sostenuto da Draghi, ma di fatto solo una quantità minima (l’1 per cento) dei vaccini prodotti dal Paese sono stati inviati all’estero.

Guardiamo ora alla situazione negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti

Il 5 febbraio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha applicato alla produzione americana di vaccini il Defense Production Act (Dpa), un provvedimento nato durante la guerra fredda che attribuisce poteri straordinari all’amministrazione in carica per gestire e, se necessario, rafforzare la produzione industriale interna in un momento di emergenza.

Tara Sklar, docente di diritto sanitario presso l’Università dell’Arizona, ha spiegato a Pagella Politica che in questo modo Biden può dirigere la produzione industriale e fare in modo che i contratti stretti tra il governo americano, le case farmaceutiche (in particolare, Pfizer-BioNTech) e i loro fornitori abbiano la precedenza su tutti gli altri accordi siglati dalle società, compresi quelli con altri Paesi. In cambio, l’amministrazione si assicura che le aziende in questione ricevano tutti i materiali di cui hanno bisogno.

Il Dpa era già stato utilizzato nel corso della pandemia dall’ex presidente Donald Trump, che si era così assicurato che le società producessero dispositivi di protezione individuale (come le mascherine) e ventilatori da destinare in primis all’utenza americana.

L’imposizione del Dpa sui vaccini quindi non corrisponde a un vero e proprio divieto sulle esportazioni, ma di fatto ha circa gli stessi effetti e sta creando diversi problemi. L’India per esempio – uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia ma anche un grande produttore di vaccini, non solo contro la Covid-19 – ha denunciato come il blocco stia rendendo più difficile trovare le materie prime necessarie per produrre i farmaci. Lo scorso 16 aprile infatti Adar Poonawalla, Ceo del centro di produzione di vaccini Serum Institute India, ha chiesto al presidente americano di rimuovere l’«embargo» sulle materie prime in modo che «la produzione possa riprendere».

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno comunque esportato alcuni vaccini: lo scorso marzo, per esempio, il Paese ha inviato 4 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca ai vicini Canada e Messico. È importante ricordare che il vaccino sviluppato da AstraZeneca non è attualmente autorizzato per l’uso negli Stati Uniti – dove però la produzione era già stata avviata – mentre ha già ricevuto il via libera negli altri due Paesi interessati. Lo scambio è stato possibile grazie a un cavillo legale: non si trattava di una vera e propria esportazione, ma di un «prestito» (loan).

Secondo i dati di Airfinity, al 12 maggio gli Stati Uniti avevano prodotto quasi 330 milioni di dosi, di cui l’1 per cento (3 milioni) destinate all’esportazione.

Per riassumere, se negli Stati Uniti non è attivo un vero e proprio divieto sulle esportazioni di vaccini contro la Covid-19, è però vero che il Paese ha condizionato l’invio di dosi e materie prime all’estero al fatto che le società farmaceutiche riuscissero prima a soddisfare il fabbisogno interno.

Gli altri Paesi

Oltre al Regno Unito e agli Stati Uniti, secondo Mario Draghi anche «altri Paesi» hanno imposto un divieto sulle esportazioni di vaccini contro la Covid-19.

È vero che almeno un altro Stato ha pesantemente limitato l’invio di vaccini all’estero: parliamo dell’India che, a fine marzo, ha drasticamente ridotto le esportazioni nel tentativo di far fronte a una situazione interna ormai al collasso. Come abbiamo già spiegato, i vaccini prodotti in India e spediti all’estero sono destinati principalmente a Paesi poveri o in via di sviluppo, come il Bangladesh o la Nigeria. Il Paese comunque non hai mai imposto un vero e proprio divieto sulle esportazioni.

Non ci risulta che altri Paesi abbiano attivato un divieto sulle esportazioni, ma restiamo disponibili a ricevere precisazioni in merito.

Il verdetto

Il 25 maggio il presidente del Consiglio Mario Draghi, parlando con la stampa da Bruxelles, ha commentato l’andamento della campagna vaccinale in Europa affermando che l’Unione esporta all’incirca tanti vaccini quanti ne distribuisce alla sua popolazione, mentre «gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri Paesi non permettono alcuna esportazione».

Abbiamo controllato, e Draghi ha parzialmente ragione. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, lo scorso 6 maggio l’Europa aveva distribuito 200 milioni di dosi ai suoi cittadini e ne aveva esportate altrettante. I dati riportati dalla società di consulenza Airfinity però mostrano come al 12 maggio l’Unione avesse esportato il 35 per cento delle dosi prodotte, e non il 50 per cento. La discrepanza potrebbe dipendere dal fatto che von der Leyen ha conteggiato come già esportate dosi per cui sono stati presi accordi ma che, di fatto, non sono ancora state spedite. In ogni caso possiamo affermare che l’Unione europea esporti grandi quantità di vaccini rispetto al suo consumo interno.

Non è invece del tutto corretto sostenere che Regno Unito e Stati Uniti abbiano imposto un divieto sulle esportazioni. Londra infatti non ha all’attivo nessuna limitazione simile, anche se se secondo i dati che ci ha fornito Airfinity il Paese al 12 maggio aveva esportato appena l’1 per cento dei vaccini prodotti.

Il presidente americano Joe Biden ha invece applicato il Defense Production Act sulla produzione americana di vaccini, una misura d’emergenza che permette di controllare la produzione nazionale di determinate categorie di prodotti e fare in modo che le aziende debbano prima soddisfare la domanda americana, e poi pensare all’estero. Questo provvedimento, definito un «embargo», ha di fatto drasticamente limitato le esportazioni dei vaccini prodotti negli Usa (secondo Airfinity, l’1 per cento).

Per quanto riguarda «altri Paesi», in seguito al peggioramento della condizione epidemiologica l’India ha fortemente limitato l’invio di vaccini all’estero, pur senza imporre un divieto formale. Non abbiamo notizie di altri Paesi che abbiamo vietato le esportazioni, ma rimaniamo disponibili per precisazioni in merito.

In conclusione, per Draghi un “C’eri quasi”.