Il 17 luglio, in un’intervista con Il Corriere della Sera, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Partito democratico) ha difeso l’accordo tra governo e Atlantia – la società controllata dalla famiglia Benetton – che prevede il passaggio del controllo di Autostrade per l’Italia a Cassa e depositi e prestiti, una società a sua volta controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Secondo i critici dell’intesa, questa soluzione mostra un’eccessiva ingerenza da parte dello Stato italiano nell’economia di mercato, mentre secondo Gualtieri questo non è vero, dal momento che l’Italia resta «uno dei Paesi più aperti agli investimenti esteri».

Ma è davvero così? Abbiamo verificato e Gualtieri sbaglia.

Che cosa dicono i numeri Ocse

A livello internazionale, per quantificare quanti investimenti stranieri sono attratti da un Paese viene utilizzato l’indicatore degli “investimenti diretti esteri” (Ide, o in inglese Foreign direct investments, Fdi). Quest’ultimi indicano, per esempio, le risorse investite da una società per comprare quote di un’altra società, residente in un altro Paese, e prenderne il controllo.

Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2019 gli investimenti stranieri diretti verso l’Italia hanno avuto un valore pari a 26,6 miliardi di dollari (circa 23,1 miliardi di euro), in calo rispetto ai 32,9 miliardi di dollari del 2018 (circa 28,6 miliardi di euro).

L’anno scorso il nostro Paese si è collocato al quattordicesimo posto su 44 tra i Paesi Ocse, nella classifica degli Ide in valore assoluto, dietro agli altri grandi Paesi europei come Gran Bretagna (59,1 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri), Francia (43,6 miliardi) e Germania (36,4 miliardi).

Le cose vanno anche peggio se guardiamo agli Ide in rapporto alla ricchezza nazionale. L’anno scorso gli investimenti diretti esteri verso l’Italia hanno raggiunto un valore pari all’1,3 per cento del Pil, percentuale al trentesimo posto su 44, contro una media Ocse dell’1,7 per cento e una media dell’Unione europea del 2,6 per cento.

Il nostro Paese è poi lontano dalle prime posizioni anche se si guardano i dati stock sugli investimenti diretti esteri, cioè il valore totale degli investimenti fatti nel corso del tempo verso l’Italia, e non relativi a quelli “entrati” nel nostro Paese in un singolo anno.

Al 2019, secondo i dati stock Ocse, in Italia gli investimenti diretti esteri ammontavano al 22 per cento del Pil, quartultimo dato su 26 Paesi, contro una media Ocse del 46 per cento e del 59 per cento dell’Ue. Al 2018 (dove abbiamo a disposizione dati per più Paesi) i dati stock sugli investimenti diretti esteri verso l’Italia ammontavano a circa il 21 per cento della ricchezza lorda prodotta nel nostro Paese, in trentottesima posizione su 44.

Dunque, sia che si guardi ai numeri degli ultimi due anni presi singolarmente, sia a quelli sugli investimenti accumulatisi nel tempo, possiamo dire che Gualtieri sbaglia nel sostenere che l’Italia rimanga «uno dei Paesi più aperti agli investimenti esteri».

Quanto è “restrittiva” l’Italia

L’affermazione del ministro dell’Economia può però essere analizzata anche da un’altra prospettiva, ossia da quella delle restrizioni che un Paese mette per evitare l’afflusso di investimenti provenienti dall’estero.

Ogni anno l’Ocse aggiorna un proprio indice, chiamato Fdi regulatory restrictiveness index, che mostra proprio il grado di restrizione esistente in diversi Paesi del mondo nei confronti degli investimenti esteri in entrata.

Se un Paese ha un indice di restrittività pari a 0, significa che ha un’economia completamente aperta verso gli investimenti stranieri; viceversa, se il suo indice è pari a 1, significa che è completamente chiusa agli investimenti esteri.

Nel 2018 (dati più aggiornati), l’Italia ha registrato un Fdi regulatory restrictiveness index pari a 0,052 – uguale a quello del Giappone – in trentunesima posizione su 69 Paesi monitorati dall’Ocse, con un valore stabile rispetto al 2017, quando l’Italia era ventinovesima. Tra i Paesi Ue presenti in classifica, nel 2018 solo Austria e Polonia hanno fatto peggio di noi.

Gli altri grandi Paesi europei hanno poi registrato due anni fa indici di restrittività più “aperti” del nostro: Spagna (0,021), Germania (0,023), Regno Unito (0,040) e Francia (o,045). È vero comunque che siamo un po’ più “aperti” di Paesi come Stati Uniti (0,089), Australia (0,149) e Canada (0,161).

Anche in questo caso, sebbene a differenza dei dati sugli investimenti diretti esteri non siamo tra le ultime posizioni a livello globale, possiamo dire che non siamo neppure tra i Paesi «più aperti» agli investimenti stranieri.

“Fare business” in Italia

Un’ultima prospettiva da cui si può analizzare la dichiarazione di Gualtieri al Corriere della Sera riguarda i vincoli fiscali e normativi che un’azienda estera incontra quando decide di “fare impresa” in Italia.

Ogni anno la Banca mondiale realizza il rapporto Doing Business che cerca proprio di quantificare quanto sia facile o complicato avviare un’impresa in 190 Paesi del mondo, sulla base di diversi indicatori, che vanno dal pagamento delle tasse all’ottenere prestiti.

In parole semplici, più è facile avviare un’impresa in un Paese, più è probabile che quel Paese possa attirare investimenti dall’estero.

Secondo i dati del Doing Business 2020 – pubblicato a ottobre 2019 – lo scorso anno l’Italia si è collocata al cinquantottesimo posto su 190, al quintultimo posto tra i Paesi Ue (davanti solo a Malta, Grecia, Lussemburgo e Bulgaria) e ultima tra i Paesi del G7.

Nel 2018 l’Italia era invece al cinquantunesimo posto su 190. Nel 2019 ha dunque perso sette posizioni.

Il verdetto

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd) ha difeso l’accordo tra governo e Atlantia per il futuro di Autostrade per l’Italia – che vede l’ingresso di Cassa depositi e prestiti nel concessionario autostradale – dicendo che il nostro Paese rimane uno dei «più aperti agli investimenti esteri».

Al di là del giudizio politico sull’intesa, abbiamo verificato i dati sugli investimenti diretti esteri e le cose non stanno come dice Gualtieri.

Nel 2019 gli investimenti diretti esteri accumulati in Italia avevano un valore pari al 22 per cento del Pil italiano, tra i dati più bassi di tutta l’Ocse. Quelli entrati soltanto nel 2019 – sia in valore assoluto che in percentuale al Pil – non erano neppure in questo caso nelle prime posizioni.

Per quanto riguarda la “restrittività” verso gli investimenti diretti esteri, non siamo tra gli ultimi ma neppure tra i primi (e siamo superati dagli altri grandi Paesi europei), mentre in generale, per quanto riguarda la facilità di “fare impresa”, siamo nelle retrovie tra gli Stati comunitari e al cinquantanovesimo posto sui 190 Paesi presi in considerazione dalla classifica Doing Business della Banca mondiale.

In conclusione, “Pinocchio andante” per Gualtieri.