Il 14 febbraio 2020, la capogruppo di Forza Italia alla Camera Mariastella Gelmini, ha scritto su Twitter che secondo la Banca d’Italia nel 2019 il debito pubblico del nostro Paese è aumentato di 29 miliardi di euro, raggiungendo quota 2.409 miliardi di euro.

Secondo l’ex ministra dell’Istruzione, questo aumento sarebbe «il costo» del reddito di cittadinanza (Rdc) e delle altre «mance, mancette e bonus vari» imputabili al Movimento 5 stelle.

Abbiamo verificato quale sia stato l’andamento del debito pubblico e se l’argomentazione di Gelmini sia corretta o meno.

Come è cresciuto il debito pubblico nel 2019

Al 31 dicembre 2019, come certifica la Banca d’Italia, il debito pubblico italiano si è attestato a 2.409 miliardi di euro, in aumento di quasi 29 miliardi rispetto ai 2.380,6 miliardi di euro del 31 dicembre 2018 (+28,7 miliardi). I numeri da cui parte Gelmini sono dunque corretti.

Come sottolineato dall’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, il debito è comunque cresciuto meno delle previsioni fatte dagli osservatori e dal governo stesso. L’aumento del debito pubblico previsto per il 2019 dalla Nota di aggiornamento al Def pubblicato a settembre dello scorso era stimato in circa 40 miliardi di euro: dai citati 2.380,6 miliardi di fine 2018 a 2.420,3 miliardi di euro. Dieci miliardi in più di quanto non sia poi effettivamente accaduto.

Secondo i dati di Banca d’Italia, il maggiore indebitamento del 2019 proviene dalle Amministrazioni centrali (circa 32 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente), mentre gli Enti locali hanno ridotto il loro debito (circa tre miliardi di euro in meno); i debiti in capo agli Enti previdenziali sono invece rimasti invariati.

Il peso delle «mance, mancette e bonus vari» sul debito pubblico

Ma passiamo alla seconda parte dell’affermazione dell’ex ministro dell’Istruzione.

Gelmini ha imputato questo aumento del debito pubblico a «reddito di cittadinanza, mance, mancette e bonus vari». Non c’è modo di verificare con certezza tale affermazione, poiché nella pubblicazione più recente della Banca d’Italia sulle finanze pubbliche italiane non è riscontrabile quali siano i capitoli di spesa che hanno comportato aumenti del debito.

In generale, il debito aumenta quando le spese dello Stato eccedono le sue entrate, e la spesa pubblica dipende da una infinita varietà di singole voci. Quelle citate da Gelmini ne fanno sicuramente parte ma sono una piccola parte di un insieme molto più vasto.

Si può quindi dire che non c’è una correlazione diretta, come invece ha sostenuto la capogruppo alla Camera di Forza Italia, tra gli ultimi provvedimenti di spesa e il recente aumento del debito pubblico. Con lo stesso ragionamento si potrebbe anche sostenere che il debito sia aumentato per impegni e oneri assunti ben prima delle ultime leggi di Bilancio.

È però vero che lo stesso governo Lega-M5s ha in passato più volte ribadito (ma non sono mancate le retromarce) la necessità di prendere soldi a prestito per potere realizzare le sue misure di bandiera, come il reddito di cittadinanza.

Infine, la spesa complessiva per il Rdc è direttamente imputabile alle Amministrazioni centrali, tuttavia i costi sostenuti per Rdc, pensione di cittadinanza e reddito di inclusione (ReI) ammontano nel 2019 a circa 4,7 miliardi di euro, secondo il dossier di commento al Nadef del servizio studi di Camera e Senato. Tale importo è meno di un sesto dell’aumento del debito delle Amministrazioni centrali.

Il debito pubblico nel tempo

Ma come si è evoluto il debito pubblico nel tempo? La sua crescita tra il 2018 e il 2019 non è di certo un caso isolato. In base ai dati della Banca d’Italia (“Amministrazioni pubbliche: debito lordo”), gli aumenti negli ultimi anni sono pressoché costanti e spesso di maggiore entità.

A partire dal 2002, anno di introduzione dell’euro, la crescita maggiore si è verificata tra il 2008 e il 2009, cioè sotto il governo Berlusconi IV, quando Mariastella Gelmini era ministra dell’Istruzione. Allora l’incremento fu di circa 101 miliardi di euro, più del triplo dell’aumento registrato nel 2019, anche se bisogna considerare che quello fu l’anno dello scoppio della crisi economica mondiale.

Altri incrementi molto robusti si sono verificati poi negli anni successivi: 82 miliardi fra il 2012 e il 2013 (governo Monti), 81 miliardi fra il 2011 e il 2012 (governo Berlusconi IV, per quasi 11 mesi), e ancora 81 miliardi tra il 2009 e il 2010 (governo Berlusconi IV).

Insomma, è chiaro che i valori del debito pubblico in quegli anni sono stati influenzati dalla crisi economica in corso. Incrementi maggiori dei 29 miliardi del 2019, tuttavia, si sono verificati anche in anni non di crisi: ad esempio, tra il 2016 e il 2017 (governo Gentiloni) il debito pubblico è aumentato di 46 miliardi. E ancora, volendo andare un po’ più indietro nel tempo, tra il 2005 e il 2006 (governi Berlusconi II e Berlusconi III) l’incremento del debito pubblico fu di 65 miliardi.

Come abbiamo già detto riguardo ai dati più recenti, non si possono imputare con certezza questi aumenti del debito pubblico alle scelte dei governi in carica in quel momento. Di volta in volta entrano in gioco molteplici fattori interni e internazionali, presenti e passati.

Il verdetto

L’ex ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha indicato l’incremento del debito pubblico di 29 miliardi di euro tra 2018 e 2019 come diretta conseguenza del reddito di cittadinanza e di altre «mance»: come abbiamo visto i dati sono corretti ma il nesso di causa-effetto non è dimostrabile. La spesa complessiva per reddito e pensione di cittadinanza, in ogni caso, è pari a circa un sesto dell’incremento del debito imputabile alle Amministrazioni centrali.

L’incremento del debito pubblico verificatosi nel 2019 non è poi l’aumento più consistente che sia avvenuto negli anni recenti. Anche non considerando gli anni dal 2009 al 2013 (cioè quelli delle crisi economica), ci sono stati aumenti di debito ben più consistenti, ad esempio tra il 2005 e il 2006 (quando peraltro era al governo Forza Italia, con Berlusconi presidente del Consiglio) o tra il 2016 e il 2017.

In conclusione, Gelmini merita un “Nì”.