Il 3 gennaio 2020, con un video su Facebook, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha criticato (min. 0:40) il Movimento 5 stelle e il salvataggio da parte del governo della Banca Popolare di Bari.

In particolare, Meloni ha difeso la proposta del suo partito di nazionalizzare la Banca d’Italia, dicendo che «la vigilanza, cioè Bankitalia, è di fatto detenuta da quelli che dovrebbe vigilare».

Ma è davvero così? La Banca d’Italia è di proprietà delle banche private che dovrebbe controllare? Abbiamo verificato.

Che cosa fa la Banca d’Italia

Come spiega la Banca d’Italia stessa, l’istituto con sede a Palazzo Koch, a Roma, svolge attività in quattro aree: la moneta (per esempio concorrendo alle scelte e agli interventi di politica monetaria della Bce e alla produzione di banconote); il sistema finanziario (dalla vigilanza sugli intermediari alla gestione delle crisi delle banche); la ricerca e la statistica (raccogliendo dati ed elaborando studi in materia bancaria e finanziaria); i servizi al pubblico (dalla cura degli incassi e pagamenti per conto dello Stato allo svolgimento di attività di educazione finanziaria e di tutela dei risparmiatori).

La critica della leader di Fratelli d’Italia è che la Banca d’Italia sia di proprietà delle banche private. Questo causerebbe un vero e proprio conflitto d’interessi, in particolare nelle attività di vigilanza. Anche se il primo dato di fatto è vero – la proprietà di Banca d’Italia è formalmente in larga parte privata – la seconda parte, cioè l’esistenza del conflitto di interessi, è molto più discutibile: sia perché la vigilanza sulle banche maggiori è oggi della Bce, sia perché ci sono vari meccanismi per garantire l’autonomia dell’operato di Bankitalia. Vediamo le cose più nel dettaglio.

Banca d’Italia è pubblica o privata?

Per prima cosa: la Banca d’Italia non è un istituto privato. L’articolo 1 dello Statuto della banca centrale italiana stabilisce che «la Banca d’Italia è istituto di diritto pubblico» (comma 1) e che «nell’esercizio delle proprie funzioni e nella gestione delle proprie finanze, la Banca d’Italia e i componenti dei suoi organi operano con autonomia e indipendenza nel rispetto del principio di trasparenza, e non possono sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati» (comma 2).

Questa indicazione è in linea con il principio di indipendenza che devono rispettare tutte le banche del Sistema europeo di banche centrali (Sebc), che è composto dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Ue (tra cui dunque anche la Banca d’Italia).

Un concetto simile è stato ribadito anche da una sentenza di luglio 2006 della Corte di Cassazione, secondo cui la Banca d’Italia «non è una società per azioni di diritto privato […] bensì un istituto di diritto pubblico, […] fornito pertanto di autonoma personalità giuridica».

La questione della divisione del capitale

La natura pubblica della Banca d’Italia sembra però essere messa in dubbio dalle distribuzioni delle sue quote di capitale. Ed è qui che entra in gioco l’interpretazione – come vedremo, fuorviante – di Meloni, ma data in passato anche da altri esponenti politici, come Alessandro Di Battista (M5s).

Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2019, le 300 mila quote del capitale della Banca d’Italia sono possedute per la maggior parte da istituti privati, mentre solo una piccola parte è in mano a istituti ed enti pubblici.

Per esempio, a fine 2019 Intesa San Paolo e Unicredit possedevano insieme 104.750 quote (quasi il 35 per cento sul totale), mentre Inps e Inail ne avevano entrambe “solo” 9 mila (che sommate tra loro fanno il 6 per cento sul totale).

Come ha spiegato in un approfondimento del 2014 la stessa Banca d’Italia, questo modello – istituto di diritto pubblico, con capitale per lo più in mano ai privati – non è dissimile da quello presente in altre economie avanzate del mondo, come Giappone e Stati Uniti. In entrambi i Paesi, infatti, all’interno delle banche centrali c’è una presenza di proprietà private, elemento che non mette in discussione il loro carattere pubblico.

Ricapitolando: è vero che quasi tutto il capitale della Banca d’Italia è in mano a banche private, ma questo basta per dire che l’istituto è controllato dalle banche private? La risposta in breve è no, almeno per due motivi che riguardano il ruolo limitato degli istituti privati nelle decisioni della Banca d’Italia. Analizziamo questi due elementi nel dettaglio.

La rappresentanza delle banche private

Il primo motivo riguarda la rappresentanza che le banche private hanno dentro la banca centrale italiana. L’Assemblea dei partecipanti – regolamentata dagli articoli 6-14 dello Statuto – è un organo in cui chi si divide il capitale della Banca può far valere i propri interessi, con l’elezione di 13 consiglieri del Consiglio superiore dell’istituzione.

Come spiega la Banca d’Italia, questo Consiglio superiore «esercita le funzioni di amministrazione generale e controlla l’andamento della gestione». I suoi membri non possono però ricoprire alcun incarico in soggetti vigilati, ma devono essere «personalità con significativa esperienza nel settore imprenditoriale, nell’attività libero-professionale, nell’insegnamento universitario o nell’alta dirigenza della Pubblica amministrazione».

Come chiarisce sempre lo Statuto, per il perseguimento delle finalità istituzionali l’Assemblea dei partecipanti «non ha alcuna ingerenza nell’esercizio delle funzioni pubbliche», della Banca d’Italia e del suo governatore, che siede nel Consiglio superiore ma che – come vedremo meglio più avanti – non è nominato da chi rappresenta le banche private.

Gli istituti privati nominano anche i membri del Direttorio della banca centrale, che comprendono il direttore generale e i vicedirettori generali, ma questo avviene «su proposta del Governatore» (art. 18 dello Statuto).

Ci sono poi dei limiti per la partecipazione alle quote di capitale della Banca d’Italia. Solo le società che hanno sede e amministrazione in Italia possono infatti acquistare le quote, senza superare più del 3 per cento del totale, come ha stabilito la legge n. 5 del 29 gennaio 2014. Chi supera questo limite (e come abbiamo visto in precedenza ci sono alcune banche private in questa condizione) non ha vantaggi né sui dividendi delle quote in eccedenza, che vengono trasferite alle riserve statutarie della Banca d’Italia, né in termini di rappresentanza.

Ricapitolando: le banche private hanno un ruolo ridotto, mentre la figura del governatore resta quella più importante. Ed è questo il secondo motivo per cui l’influenza delle banche su chi dovrebbe controllarle è in realtà limitata.

Il ruolo del governatore

La nomina del governatore della Banca d’Italia è politica. Come spiega l’articolo 18 dello Statuto, «la nomina del Governatore, il rinnovo del suo mandato e la revoca […] sono disposti con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore».

Sulla nomina di questo ruolo – ad oggi ricoperta da Ignazio Visco – le banche private possono esprimere solo un parere non vincolante. La scelta di chi è indicato come governatore è quindi pubblica e, tra le altre cose, determina chi sarà il rappresentante della banca centrale italiana nel Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce), ossia il principale organo decisionale della Bce.

Questo è un fattore centrale del dibattito in cui si inserisce la dichiarazione di Meloni perché proprio l’Unione europea ha un ruolo fondamentale nel far sì che l’ingerenza delle banche private sull’attività delle banche centrali dei Paesi membri sia la più limitata possibile. Con la nascita dell’Eurozona, le competenze degli istituti privati in tema di supervisione e controllo in tema di controllo delle banche stesse sono state ridotte di molto, in favore della Bce stessa.

La Banca d’Italia, per esempio, deve esercitare i propri poteri di vigilanza sul sistema bancario italiano nei limiti e secondo le modalità previste dal Meccanismo di vigilanza unico (Mvu), che è stato introdotto nel 2014. Il Mvu è uno dei pilastri dell’Unione bancaria dell’Ue e stabilisce che la Bce «eserciti la vigilanza diretta su 119 banche significative dei paesi partecipanti, che detengono quasi l’82 per cento degli attivi bancari nell’area dell’euro». Le più grandi banche italiane – quelle che detengono anche più quote del capitale della Banca d’Italia, come abbiamo visto prima – sono dunque vigilate direttamente dalla Bce.

Tra le principali finalità del Mvu, ci sono anche la salvaguardia della sicurezza e della solidità del sistema bancario europeo e lo sviluppo di una vigilanza coerente.

Il verdetto

La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha criticato l’attuale organizzazione della Banca d’Italia, chiedendosi «come può vigilare sulle banche un ente che è di proprietà delle stesse banche».

Abbiamo verificato e al netto di alcune precisazioni l’affermazione di Meloni è fuorviante.

Da un lato, è vero che le banche private possiedono quasi tutte le quote di capitale della Banca d’Italia, ma l’istituto di Palazzo Koch resta un istituto di diritto pubblico, a cui va aggiunto il fatto che la rappresentanza privata ha un ruolo limitato sia nel perseguimento delle finalità istituzionali della Banca d’Italia sia nella nomina del governatore, che è pubblica ed è la più importante.

Dall’altro lato, negli ultimi anni è stato ridotto il ruolo di controllo della Banca d’Italia sulle banche private, a favore della Banca centrale europea, per cercare di favorire una maggiore stabilità economica dell’Eurozona.

Dunque, se da un punto di vista politico è lecito criticare come funziona il sistema di vigilanza bancario nel nostro Paese – visti anche i recenti salvataggi di istituti privati da parte dello Stato – non è comunque corretto farlo partendo dalla premessa che la Banca d’Italia sia di proprietà privata, un’affermazione formalmente giusta ma che va contestualizzata. In conclusione, Meloni si merita un “Nì”.