Il 1° gennaio 2020 il deputato del Movimento 5 stelle Manlio Di Stefano ha elencato su Facebook quelli che secondo lui sono stati i risultati ottenuti dal suo partito alla guida dell’Italia nel 2019.

Secondo Di Stefano, tra le altre cose, «grazie alle molteplici riforme del Ministro Costa siamo in assoluto tra i Paesi più verdi al mondo».

Ma è davvero così? Le misure promosse da Sergio Costa – in quota M5s e ministro dell’Ambiente in entrambi gli esecutivi Conte – mettono l’Italia ai vertici ambientali del mondo? Abbiamo verificato e l’affermazione di Di Stefano risulta fortemente esagerata.

Come è messa l’Italia

Stabilire quali siano i Paesi «più verdi al mondo» non è semplice: nel valutare le politiche ambientali dei singoli Stati concorrono una serie di fattori, che vanno da quanto fatto dai governi in tema di emissioni all’aumento dell’utilizzo delle energie rinnovabili.

Esistono però enti indipendenti e internazionali che periodicamente confrontano gli sforzi fatti dai singoli Stati per contrastare l’emergenza climatica in corso (che ricordiamo, è un fatto e rischia di portare l’aumento delle temperature medie globali oltre i 3°C a fine secolo).

Una delle ricerche più autorevoli in questo ambito è il Climate Change Performance Index (Ccpi), realizzato ogni anno, a partire dal 2005, da tre realtà: Germanwatch (un’organizzazione non governativa che realizza analisi sugli effetti dei cambiamenti climatici nel mondo); Climate Action Network (una rete di oltre 1.300 Ong in 120 Paesi che promuove la sostenibilità ambientale); e New Climate Institute (un’organizzazione no-profit che supporta la ricerca in ambito climatico).

A dicembre 2019, è stata pubblicata l’ultima edizione del Ccpi, che nel valutare le prestazioni dei singoli Paesi prende in considerazione quattro categorie, con pesi diversi: il livello di emissioni, l’uso energetico, le fonti rinnovabili e le politiche sul clima.

Nella classifica mondiale dell’anno appena concluso, l’Italia si colloca al ventiseiesimo posto (con un punteggio di 53,92, rispetto alla media Ue di 55,82), in calo di tre posizioni rispetto alla rilevazione precedente e con un punteggio complessivo più basso.

Ai primi posti si trovano Svezia, Danimarca, Marocco, Regno Unito, Lituania, India e Finlandia. Agli ultimi Stati Uniti, Arabia Saudita, Taiwan, Korea, Iran, Australia e Canada. Anche Francia e Germania, come l’Italia, si trovano nella fascia media, ma con punteggi migliori del nostro.

«Il Paese ha ricevuto un voto “medio” in tutte le categorie, mostrando una generale mancanza di misure efficaci per migliorare le proprie prestazioni», sottolinea il sito ufficiale del Ccpi.

In breve: l’Italia non sta facendo abbastanza per contrastare l’emergenza climatica.

«Il nostro Paese non è affatto ai primi posti per politiche ambientali, ma neppure negli ultimi», ha spiegato a Pagella Politica Stefano Caserini,ingegnere ambientale e docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano (che ha contribuito alla realizzazione dell’ultimo rapporto Ccpi). «La distanza tra quello che stiamo facendo e quello che c’è da fare è enorme, se si vogliono rispettare gli impegni presi con l’Accordo di Parigi del 2015, che l’Italia ha sottoscritto».

Ma le riforme promosse dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa – e dagli ultimi due governi in generale – ci stanno portando nella direzione giusta? «Non sono abbastanza», ha sottolineato Caserini. «Nei prossimi due o tre decenni, dobbiamo fare qualcosa di molto diverso rispetto a quanto fatto fino ad oggi».

Vediamo nel dettaglio perché.

Che cosa è stato fatto per l’ambiente

Il contrasto al riscaldamento globale è stato inserito tra gli obiettivi principali sia del governo M5s-Pd che di quello Lega-M5s, che si sono alternati alla guida del Paese a inizio settembre 2019. Costa è stato ministro di entrambi gli esecutivi.

«Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la protezione dell’ambiente, il progressivo e sempre più diffuso ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto ai cambiamenti climatici», si legge nei 29 Punti del programma firmato da M5s e Pd. Una frase che ricorda alcuni passaggi del Contratto di governo – siglato a maggio 2018 da Luigi Di Maio e Matteo Salvini – come, ad esempio, questo: «È fondamentale potenziare le azioni attualmente considerate a livello nazionale per il contrasto al cambiamento climatico».

Il sito della Camera raccoglie diversi approfondimenti su che cosa è stato fatto in quest’ultimo anno per rendere «più verde» l’Italia. In concreto, sono due «le recenti misure nazionali per la lotta ai cambiamenti climatici» più significative: una è l’ultima legge di Bilancio per il 2020, l’altra è il cosiddetto “decreto Clima”.

La legge di Bilancio per il 2020

La manovra finanziaria del governo M5s-Pd – approvata definitivamente dalla Camera il 24 dicembre – contiene alcuni commi (dall’85 al 100) dedicati al Green new deal, ossia un piano di investimenti pubblici per contrastare i cambiamenti climatici.

Per questo obiettivo, la legge di Bilancio ha istituito un fondo con una dotazione complessiva di oltre 4,2 miliardi di euro nell’arco di quattro anni (nello specifico, 470 milioni di euro per il 2020, 930 milioni di euro per il 2021 e 1.420 milioni di euro per ciascuno degli anni 2022 e 2023).

Queste risorse serviranno a finanziare diversi interventi: in primo luogo, quelli volti alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, in secondo luogo altre misure più specifiche, come il supporto all’imprenditoria giovanile e femminile, alla riduzione dell’uso della plastica e alla sostituzione della plastica con materiali alternativi.

Una questione formale

Rispetto a quanto promesso nei mesi precedenti, il governo M5s-Pd ha però mantenuto solo in parte gli impegni presi. Per esempio, la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef) 2019 aveva indicato come obiettivo la presentazione di un disegno di legge collegato alla legge di Bilancio esplicitamente dedicato al Green New Deal e alla «transizione ecologica del Paese», ma di questa proposta si è persa traccia.

Ma se questa questione è più formale che altro – nella legge di Bilancio si potrebbe in teoria scrivere la stessa sostanza di quanto si sarebbe scritto nel ddl collegato – altre hanno invece natura sostanziale.

Restano i sussidi dannosi

La Nadef di fine settembre 2019 aveva proposto per esempio di trovare le risorse per finanziare la nuova legge di Bilancio, tra le altre cose, riducendo i «sussidi dannosi per l’ambiente».

Ogni anno lo Stato spende circa 18 miliardi di euro in sussidi di questo genere per finanziare, ad esempio, un differente trattamento fiscale fra benzina e gasolio (quasi 5 miliardi di euro), l’esenzione dall’accisa sui carburanti per la navigazione aerea (1,5 miliardi di euro) o il rimborso del maggior onere derivante dall’aumento dell’accisa sul gasolio per l’autotrasporto merci e passeggeri (1,3 miliardi di euro).

Secondo i critici questi sussidi andrebbero tagliati per favorire una più efficace transizione ecologica del Paese. La legge di Bilancio non ha però introdotto modifiche sostanziali su questo tema, non rispettando quanto scritto nella Nadef.

Il depotenziamento della plastic tax e non solo

Per altre misure legate all’ambiente, come la cosiddetta plastic tax e la tassazione delle auto aziendali, la maggioranza in Parlamento ha poi corretto il tiro con la versione definitiva della legge di Bilancio, abbassando l’aumento delle aliquote previste dal disegno di legge presentato dalla maggioranza in Senato: per esempio, la tassa sulla plastica applicata ai prodotti monouso è scesa da 1 euro al chilogrammo a 0,45 centesimi.

«Doveva essere la manovra del Green New Deal, quella che avrebbe messo al centro l’ambiente – ha dichiarato Legambiente in un comunicato stampa del 23 dicembre 2019 – ma l’esecutivo è ancora lontano dall’obiettivo».

Risorse scarse

Una critica arrivata da più parti riguarda poi le poche risorse stanziate: circa 4,2 miliardi di euro in quattro anni, come abbiamo visto.

In confronto a quanto promesso da altri Paesi, come la Germania, che a settembre 2019 ha lanciato un piano di investimenti entro il 2023 da oltre 50 miliardi di euro, l’impegno dell’Italia appare piuttosto modesto.

Il “decreto Clima”

Un discorso analogo a quello fatto per la legge di Bilancio vale anche per il cosiddetto “decreto Clima” (approvato in via definitiva dalla Camera il 10 dicembre 2019).

Nonostante sia stato definito dallo stesso ministero dell’Ambiente come «il primo decreto legge totalmente ambientale realizzato in Italia» e «un primo passo per il contrasto ai cambiamenti climatici», in realtà il contenuto è abbastanza limitato. Un aspetto, questo, che emerge anche dal nome per esteso del decreto: “Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria”.

Come spiega un approfondimento della Camera, il testo «è volto, principalmente, ad adottare misure urgenti per la definizione di una politica strategica nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici e il miglioramento della qualità dell’aria», ma secondo i critici gli interventi avrebbero una portata limitata.

«Il “decreto Clima” non andrebbe neanche chiamato “decreto Clima”, perché ha molto poco sul contrasto ai cambiamenti climatici rispetto a quello che effettivamente servirebbe mettere in campo», ha evidenziato Caserini. «È una buona legislazione in campo ambientale, con degli aspetti innovativi per esempio sulla mobilità sostenibile, ma non ha la visione e gli stanziamenti per quello che dovrebbe essere un vero “decreto Clima”». Di opinione simile sono anche alcune organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace, che in un comunicato stampa del 10 ottobre 2019 ha scritto che «occorrerebbero provvedimenti ben più radicali».

Tra le misure di maggiore rilievo, contenute nei 18 articoli del decreto, ci sono il “Programma sperimentale buono mobilità” (per un valore totale di 255 milioni di euro) per incentivare la rottamazione di veicoli inquinanti; un programma sperimentale per la riforestazione delle città metropolitane (per un importo di 15 milioni di euro); un fondo di 40 milioni di euro per i comuni per la realizzazione di corsie preferenziali per il trasporto pubblico; un fondo di 20 milioni di euro da destinare ai comuni per incentivare il trasporto scolastico con mezzi ibridi ed elettrici; una campagna di informazione nelle scuole dedicata all’ambiente; il finanziamento (con 27 milioni di euro) delle macchinette cosiddette “mangia-plastica”, ossia quelle che raccolgono bottiglie di plastica e in cambio restituiscono un piccolo bonus; incentivi per favorire il mercato dei prodotti sfusi e alla spina.

Secondo una stima del Sole 24 Ore, nel complesso il “decreto Clima” mobiliterà risorse pari a circa 450 milioni di euro in tre anni. Una cifra dunque piuttosto ridotta (si pensi banalmente che la spesa pubblica complessiva in Italia è superiore agli 800 miliardi all’anno).

Tiriamo le somme

Ricapitolando: la legge di Bilancio per il 2020 e il “decreto Clima”, che contengono gli interventi più significativi approvati nel 2019 per il contrasto ai cambiamenti climatici, non hanno mantenuto le promesse iniziali. Difficilmente poi, secondo il parere degli esperti, queste misure miglioreranno la posizione dell’Italia, che già oggi non è tra i «Paesi più verdi al mondo».

Per completezza facciamo ora un confronto più specifico con gli altri Stati, che riguarda in particolare gli obiettivi sulla riduzione delle emissioni di CO2 nei prossimi decenni.

Missione “emissioni zero”

Esiste un’accezione più ristretta di «Paesi più verdi» rispetto a quella analizzata nella prima parte di questo fact-checking, se si prendono in considerazione in particolare le emissioni nocive per l’ambiente.

Come mostra un approfondimento dell’organizzazione britannica no-profit Energy & Climate Intelligence Unit (Eciu) – che supporta un dibattito informato sui cambiamenti climatici – diversi Stati si sono impegnati a livello legislativo ad azzerare entro il 2050 le emissioni nette di C02 (ossia la differenza tra le emissioni prodotte e quelle assorbite in natura). Questo azzeramento è l’obiettivo che sta cercando di porre anche la Commissione europea per contrastare l’aumento medio delle temperature.

Secondo le rilevazioni dell’Eciu, nel 2019 17 Paesi sono stati «più verdi» dell’Italia, per quanto riguarda gli impegni presi per l’azzeramento delle emissioni entro i prossimi trent’anni.

Suriname e Bhutan hanno già raggiunto l’obiettivo. Svezia, Regno Unito, Francia e Nuova Zelanda hanno approvato leggi in cui si impegnano formalmente a raggiungere emissioni zero entro il 2050 (la Svezia in realtà già nel 2045). Cile e Fiji hanno proposte delle norme simili, mentre altri nove Stati (tra cui Islanda, Svizzera, Danimarca e Costa Rica) hanno già approvato documenti – ma non leggi – per raggiungere l’azzeramento delle emissioni tra il 2030 e il 2050.

Come spiega l’Emission gas report 2019 – pubblicato a fine dello scorso anno dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) – Italia e Germania rientrano tra i Paesi che stanno provando a dotarsi di una legislazione simile nel breve futuro, solo in quanto membri dell’Unione europea. Come abbiamo visto infatti la Commissione ha proprio tra i suoi obiettivi dichiarati quello di imporre l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.

Il verdetto

Secondo Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri del M5s, «grazie alle molteplici riforme del Ministro Costa siamo in assoluto tra i Paesi più verdi al mondo». Ma le cose non stanno così.

In primo luogo, il nostro Paese non è nelle prime posizioni in fatto di politiche per il contrasto al riscaldamento globale: si trova secondo diverse classifiche in una posizione intermedia.

In secondo luogo, le novità introdotte negli ultimi mesi – già meno incisive rispetto a quanto promesso inizialmente – sono ancora insufficienti per avere un impatto significativo sulle problematiche ambientali.

In conclusione, vista l’esagerazione, Di Stefano si merita un “Pinocchio andante”.