Il 4 dicembre il capo politico del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio ha scritto su Facebook che «dal 1999 al 2018, in Italia sono morte quasi 20.000 persone, 19.947 vittime per la precisione, a causa dei cambiamenti climatici e di quello che alcuni chiamano “clima impazzito”, cioè eventi meteorologici estremi».

Ma da dove viene la stima di questi 20 mila morti in vent’anni? E che cosa ci dice realmente questo numero? Abbiamo verificato.

Che cos’è il Global Climate Risk Index

La fonte del dato («19.947 vittime») è fornita dallo stesso Di Maio nel suo post su Facebook, dove scrive che «questi dati non ce li siamo inventati noi, ma sono contenuti nel Climate Risk Index».

Il Global Climate Risk Index (Gcri) è un rapporto pubblicato ogni anno da Germanwatch, un’organizzazione non governativa con sede a Bonn, in Germania, che si occupa anche di condurre analisi e ricerche sugli effetti dei cambiamenti climatici nel mondo.

Il Gcri, spiega il sito ufficiale di Germanwatch, «analizza fino a che punto i Paesi nel mondo sono influenzati dagli impatti negativi legati ad eventi atmosferici (come uragani, inondazioni, ondate di calore, eccetera)». Il 4 dicembre 2019 è stato pubblicato da Germanwatch il Global Climate Risk Index 2020 (qui consultabile in inglese), con le elaborazioni relative al 2018 e al ventennio 1999-2018.

Come spiega la ricerca nel suo sommario introduttivo, lo scorso anno i Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici (o meglio, dagli eventi climatici «estremi») sono stati il Giappone, le Filippine e la Germania. Se si considerano gli ultimi vent’anni, invece, al primo posto troviamo Porto Rico, seguito dal Myanmar e da Haiti.

In totale, secondo le elaborazioni di Germanwatch, tra il 1999 e il 2018 sono morte nel mondo circa 495 mila persone, in più di 12 mila eventi atmosferici estremi. Lo scorso anno, le ondate di caldo sono stato la causa principale di mortalità in questa speciale classifica.

I dati sull’Italia

A differenza di quanto dice Di Maio, il dato dei quasi 20 mila morti non compare nel rapporto Gcri 2020 consultabile pubblicamente, ma è stato riportato da fonti stampa il 4 dicembre, con l’uscita del report.

Il Global Climate Risk Index 2020 contiene negli allegati due tabelle, che, tra i vari indicatori, mostrano come si colloca un Paese in classifica per quanto riguarda sia il numero di vittime totali (nel 2018 e tra il 1999 e il 2018) sia per quelle ogni 100 mila abitanti.

Non viene dunque riportato il numero totale (come fa Di Maio), ma la posizione in classifica dei singoli Paesi esaminati. L’Italia, per esempio, nel 2018 si è collocata in ventottesima posizione come numero di morti in quell’anno e in cinquantaseiesima come numero di morti ogni 100 mila abitanti.

Abbiamo contattato Germanwatch che ci ha confermato la correttezza del dato «19.847 vittime» negli ultimi vent’anni. A singoli eventi estremi – come alluvioni e ondate di caldo o di gelo – gli autori del rapporto hanno collegato il numero di vittime stimato, utilizzando fonti stampa, studi o documenti governativi. Uno degli eventi più estremi che ha colpito il nostro Paese è stata per esempio l’ondata di caldo del 2003, che secondo il Gcri avrebbe ucciso 70 mila persone in tutta Europa.

Il Global Climate Risk Index 2019, uscito l’anno scorso, contiene invece una media annuale del numero totale di morti per i singoli Paesi. Questa media per l’Italia era di circa 1.005 vittime ogni anno, che raddoppiato per 20 anni (anche se non sono tenuti in considerazione i dati del 2018) dà una cifra simile a quella citata da Di Maio.

I dati che usa Germanwatch nelle sue elaborazioni in realtà non sono però raccolti dai ricercatori dell’organizzazione, ma dal database NatCatService realizzato dalla compagnia di riassicurazione tedesca MunichRe (che in sostanza assicura a sua volta gli assicuratori). In una nota metodologica di marzo 2018, MunichRe ha spiegato che fonti del suo database sono cinque: agenzie stampa e quotidiani, società di assicurazione, agenzie meteorologiche, studi scientifici e fonti governative, umanitarie e delle Nazioni unite.

Abbiamo contattato i responsabili di questo database, ma ci hanno detto che i singoli dati per Paese (su morti ed eventi atmosferici annessi) non sono pubblici. Bisogna dunque consultare la versione gratuita online del database NatCatService, che con una mappa interattiva mostra il tasso di mortalità in Italia nel tempo legato ad eventi atmosferici estremi.

Il NatCatService classifica i Paesi del mondo in quattro fasce: fino a un massimo di un morto ogni milione di abitanti; fino a cinque morti ogni milione; fino a 25 morti ogni milione; oltre 25 morti ogni milione.

L’Italia rientra nella terza categoria: se si escludono i terremoti – non direttamente collegabili al riscaldamento globale causato dagli esseri umani – gli eventi idrologici, climatologici e meteorologici avrebbero dunque causato nel nostro Paese, tra il 1999 e il 2018, fino a un massimo di 25 morti ogni milione di abitanti. Su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, si tratta di un massimo di 30 mila morti in 20 anni. Un numero più alto di quello indicato da Germanwatch, che ha stabilito il totale a 20 mila circa.

Che cosa c’entra il riscaldamento globale

I dati citati da Di Maio – seppure non direttamente verificabili – sono corretti, in base a quanto comunicato a Pagella Politica sia da Germanwatch che da MunichRe.

A parte il discorso delle cifre, è corretto dire, da un punto di vista scientifico, che le quasi 20 mila vittime in vent’anni «sono causa dei cambiamenti climatici»?

La risposta arriva direttamente dal Global Climate Risk Index 2020, che contiene una sezione che spiega come interpretare correttamente i dati contenuti nel rapporto.

«È importante sottolineare che il verificarsi di un singolo evento climatico estremo non può essere semplicemente attribuito al cambiamento climatico di origine antropica», spiega il Gcri. «Ciononostante, i cambiamenti climatici sono un crescente e significativo fattore che sta facendo aumentare la probabilità che si verifichino eventi estremi intensi. C’è un settore crescente di ricerche che sta studiando come attribuire al riscaldamento globale l’aumento dei rischi legati a eventi climatici estremi».

In parole semplici – come abbiamo spiegato di recente per quanto riguarda l’acqua alta eccezionale che ha colpito Venezia a novembre 2019 – è scorretto dire che un singolo evento atmosferico estremo è causato direttamente (ed esclusivamente) dal riscaldamento globale. Da un lato, la crescita delle temperature – di cui sono responsabili in parte gli esseri umani – sta causando e causerà nei prossimi anni un aumento della probabilità che si verifichino eventi atmosferici estremi (siano essi piogge o ondate di calore), come ha spiegato anche il rapporto speciale pubblicato nel 2018 dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il principale organismo internazionale delle Nazioni Unite per la valutazione dei cambiamenti climatici.

Ma dall’altro, non bisogna dimenticare che l’impatto di eventi legati anche al clima, come le alluvioni e le frane, dipende anche da fattori che non sono causati dall’aumento delle temperature, ma da decisioni umane di altro tipo. Facciamo un esempio concreto. Se un’alluvione causa vittime, con l’esondazione di un fiume che travolge delle abitazioni costruite troppo vicino al letto di un corso d’acqua, la responsabilità di quelle morti non sarà tanto del riscaldamento globale (che può aver contribuito a favorire una maggiore intensità del fenomeno atmosferico) ma delle politiche che hanno permesso che le abitazioni fossero costruite in quel luogo.

Un rapporto speciale pubblicato dall’Ipcc ad agosto 2019 spiega che proprio lo sfruttamento intensivo del suolo è una delle cause principali – insieme ai cambiamenti climatici – dei danni provocati da alluvioni e ondate di calore.

In ogni caso, il rapporto di Germanwatch – sebbene sia uno dei più citati in materia – non ha natura strettamente scientifica. È cosa ben diversa, per esempio, dal rapporto che ogni anno viene pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica britannica The Lancet, intitolato “The Lancet Countdown on health and climate change”, che quantifica e monitora l’associazione statistica tra riscaldamento globale e salute nel mondo.

Ricordiamo poi che i numeri in questione restano comunque stime, e ne esistono diverse a seconda degli eventi trattati. Per esempio, per quanto riguarda l’ondata di caldo del 2003 vista in precedenza, esistono stime più grandi rispetto a quelle elaborate dal Gcri. In una pubblicazione del 2003, l’agenzia Onu per la riduzione dei disastri (Unisdr) aveva calcolato circa 20 mila vittime soli in Italia per quell’evento, cifra pari a quella totale citata da Di Maio per tutti gli ultimi 20 anni.

Il verdetto

Secondo il capo politico del M5s Luigi Di Maio, a causa dei cambiamenti climatici «dal 1999 al 2018, in Italia sono morte quasi 20.000 persone, 19.947 vittime per la precisione». Il dato, secondo lo stesso ministro degli Esteri, proviene dal Global Climate Risk Index 2020, pubblicato il 4 dicembre scorso.

Abbiamo verificato e sebbene il numero non sia direttamente contenuto nel rapporto (che comunque non è una pubblicazione scientifica), gli autori hanno confermato a Pagella Politica che la cifra è corretta ed è stata ottenuta a partire da un database di una compagnia di riassicurazione tedesca, che però è solo in parte consultabile.

Non è possibile dunque ricostruire con precisione a quali singoli eventi climatici (per esempio, alluvioni oppure ondate di caldo) fanno riferimento i dati in questione.

Al di là della singola cifra, però, non è del tutto corretto da un punto di vista scientifico e metodologico ricondurre queste morti direttamente al riscaldamento globale. In sostanza, le morti in questione – hanno chiarito anche gli autori del Global Climate Risk Index – non si possono imputare direttamente dai cambiamenti climatici, che stanno comunque aumentando la probabilità che si verifichino eventi climatici sempre più estremi.

Tra gli altri fattori in gioco, ci sono anche quelli che non sono causati dal riscaldamento globale, ma che a loro volta – sempre a causa delle attività umane – contribuiscono all’aumento delle temperature: il consumo del suolo, la deforestazione e l’inquinamento atmosferico. In conclusione, Di Maio dà per certi numeri che non sono così solidi: si merita un “Nì”.