Il 3 giugno 2019, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha criticato su Twitter una misura contenuta nel cosiddetto “decreto Crescita”, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 30 aprile e ad oggi in corso di esame alla Camera.

Secondo l’ex ministra, il governo avrebbe svantaggiato le imprese del settore edile, facendo gravare su di loro il 50 per cento del costo delle ristrutturazioni, rimborsabili solo in 5 anni dallo Stato. Questo provvedimento – a detta di Meloni – spremerebbe le imprese «come limoni».

Ma il decreto prevede una misura di questo tipo? Se sì, gli effetti per le imprese sarebbero positivi o negativi?

Abbiamo verificato.

Lo sconto fiscale per le ristrutturazioni

Introdotto nel 1986 dal governo Craxi II con il Testo unico delle imposte sui redditi, il bonus ristrutturazioni prevede una detrazione Irpef del 36 per cento delle spese sostenute (fino a 48 mila euro) rimborsabile in 10 anni.

Nel 2012 il governo Monti – con il decreto Sviluppo (dl. 83/2012) – aveva innalzato sia la soglia della detrazione Irpef sia quella di spesa, rispettivamente dal 36 al 50 per cento e da 48 a 96 mila euro.

I governi successivi hanno poi prorogato più volte la validità di questo bonus. Lo stesso governo Conte ha rinnovato il bonus fino al 31 dicembre 2019 con legge di Bilancio approvata a fine dicembre 2018.

Semplificando: se per esempio un cittadino spende 50 mila euro in ristrutturazioni, 25 mila euro gli vengono restituiti in 10 anni dallo Stato.

La misura contenuta nel decreto Crescita

Al contrario di quanto dice Meloni, le norme previste dal “decreto Crescita” non riguardano le ristrutturazioni in senso stretto. Infatti, l’articolo 10 del provvedimento specifica chiaramente che le nuove misure introdotte si applicano ad altri due tipi di detrazioni fiscali di durata decennale: i bonus per gli interventi di efficientamento energetico (installazione di caldaie, infissi, pompe di calore, ecc.) e i bonus per gli interventi antisismici (messa in sicurezza statica degli edifici).

L’articolo 10 del cosiddetto “decreto Crescita” introduce effettivamente la possibilità per i cittadini di rinunciare alla detrazione fiscale di cui hanno diritto in cambio di uno sconto sul prezzo da parte dell’impresa che effettua i lavori (che lo recupererà in 5 anni dallo Stato). Questa opzione è però esercitabile per tipi di intervento che sono diversi da quelli citati dalla leader di Fratelli d’Italia, anche se è vero che comunemente vengano spesso ricompresi nel concetto di “ristrutturazione” (ad esempio, la sostituzione degli infissi).

Non è dunque vero che le imprese devono sobbarcarsi il 50 per cento dei costi per le ristrutturazioni edilizie in senso stretto (installazione di scale e ascensori, modifiche delle facciata, dei muri interni ecc.). Possono, come vedremo tra poco, decidere di farlo solamente nei casi in cui intervengano opere per aumentare l’efficienza energetica di un edificio o per ridurne il rischio sismico.

Secondo un rapporto pubblicato a novembre 2018 dal Servizio studi della Camera, dei 28,1 miliardi di investimenti attivati grazie agli incentivi per l’edilizia, circa 3,7 miliardi riguarda i bonus per l’efficientamento energetico. Questi ultimi costituiscono quindi una piccola parte del totale (circa il 13 per cento) degli interventi che vengono realizzati grazie a tutti i diversi tipi di bonus per l’edilizia. Dei restanti 24,4 miliardi di euro investiti in opere di recupero edilizio, il documento riporta che non è stato possibile disaggregare i dati inerenti agli incentivi antisismici, che vengono così inclusi nella categoria più ampia di recupero edilizio.

Opzione o obbligo?

Meloni commette altri due errori.

In primo luogo, lo Stato non obbliga le imprese ad anticipare le spese per questi interventi. Il testo prevede infatti che l’impresa e il cliente raggiungano un accordo per decidere se fare ricorso o meno a questa misura.

In secondo luogo, il “decreto Crescita” stabilisce (art. 10, comma 3) che l’Agenzia delle entrate adotti entro 30 giorni dall’approvazione della legge di conversione un provvedimento di attuazione della misura. Quindi, fintanto che il provvedimento attuativo e la legge di conversione non vengono approvate, non è possibile sapere se la misura definitiva sarà identica a quella contenuta nel testo del decreto o se invece verrà modificata profondamente.

Far pagare le aziende sarebbe una cattiva idea?

La misura introdotta dal governo concede un’opzione aggiuntiva alle imprese che opera nel settore degli interventi antisismici e di efficientamento energetico e non un obbligo vero e proprio. Ma chi è che sarà avvantaggiato da questa norma, così com’è scritta ora?

«Ad essere avvantaggiati saranno soprattutto imprese di grandi dimensioni che dispongono di ampia liquidità di capitale», spiega a Pagella Politica Angelo Artale, direttore generale della Federazione Industrie Prodotti Impianti Servizi ed Opere Specialistiche per le Costruzioni e la Manutenzione (Finco). «Solamente i grandi gruppi avranno la capacità di anticipare grosse somme di denaro e di avere un giro d’affari (e, quindi, di tasse pagate) sufficiente ampio per poter godere del credito d’imposta previsto dal “decreto Crescita”».

Sebbene sulla carta la misura sia opzionale, il rischio è quello di obbligare le piccole e medie imprese a doversi adattare alle grandi.

«Difficilmente un cliente accetterà la detrazione in 10 anni se può beneficiare oggi di uno sconto sul prezzo fatto da un’impresa che può permettersi di anticipare le spese per l’intervento», sottolinea Artale.

Ma le Pmi non potrebbero richiedere un finanziamento della somma anticipata ad una banca e includere il costo del prestito nel prezzo dell’intervento?

«In teoria è possibile», dice Artale. «Ma non è detto che i loro margini di guadagno sugli interventi effettuati siano sufficientemente ampi per controbilanciare il costo di queste complicate operazioni o che le finanziarie siano disposte a concedere il credito da loro richiesto».

Ad oggi, quindi, la misura contenuta nel “decreto Crescita” presenta luci e ombre.

Da una parte, può aiutare a stimolare la domanda, spingendo le persone a effettuare interventi di che in assenza di questa opzione non si sarebbero potuti permettere. Dall’altra, il rischio è quello di avvantaggiare le grandi imprese e di svantaggiare quelle di dimensioni più ridotte.

Il verdetto

La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha criticato il governo per una misura introdotta nel “decreto Crescita” che obbligherebbe le imprese a coprire – almeno inizialmente – il 50 per cento delle spese di ristrutturazione.

Secondo Meloni, la restituzione di queste spese in 5 anni da parte dello Stato – sotto forma di bonus fiscale – è una misura a chiaro svantaggio delle imprese.

La leader di Fratelli d’Italia però commette almeno tre errori.

La misura prevista dal “decreto Crescita” riguarda infatti solo gli interventi antisismici e quelli di efficientamento energetico, e non le ristrutturazioni edilizie in generale.

Inoltre, questo provvedimento non è sulla carta obbligatorio ma opzionale, e per conoscerne i dettagli sul suo funzionamento bisogna attendere un provvedimento dell’Agenzia delle entrate.

Allo stesso tempo, è però vero che alcune imprese potrebbero risultare svantaggiate da questa scelta del governo. Nello specifico, le piccole e medie imprese potrebbero trovarsi obbligate a fare ricorso a questa misura per non perdere clienti nei confronti della concorrenza delle imprese più grandi.

In conclusione, Meloni si merita un “Nì“.