Il 12 maggio 2019, ospite di Che tempo che fa su Rai 1, l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha dichiarato (min. -2:47:08) che in Italia l’80 per cento dei lavoratori ha un contratto nazionale, mentre il restante 20 per cento no.

Le dichiarazioni di Calenda si inseriscono nel dibattito sul salario minimo e dei benefici dati dall’introduzione della misura, che si rivolgerebbe in primo luogo a chi non è coperto da un contratto nazionale.

Sono percentuali corrette? Abbiamo verificato.

L’Italia e i contratti di lavoro


I contratti collettivi di lavoro vengono stipulati tra i datori di lavoro, di solito organizzati in associazioni, e i sindacati. I contratti collettivi sono suddivisi su diversi livelli (interconfederale, di categoria, locale o aziendale) e coinvolgono numerosi settori (qui una lista). Normalmente si compongono di due parti: una normativa – in cui si fa chiarezza sulle modalità retributive, gli orari, i permessi, le ferie e simili – e una obbligatoria – che raggruppa tutte le regole che disciplinano i rapporti di lavoro tra le due parti.

Carlo Calenda parla, nello specifico, dei contratti nazionali, la tipologia più importante dei contratti collettivi: il contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) ha infatti un ruolo di prima importanza tra gli altri contratti, in particolare in Italia. Il Ccnl regola, per ogni specifico settore (o categoria), i rapporti a livello nazionale.

La finalità è quella di garantire un trattamento comune a tutti gli occupati di un determinato settore. Gli altri livelli, pur basandosi sul Ccnl, hanno una maggiore flessibilità e la possibilità di integrare o meno alcuni aspetti economici e normativi stabiliti dal Ccnl.

Chi lavora (e come)


Al 30 aprile 2019, in Italia gli occupati erano 23 milioni e 291 mila. Rientrano in questa categoria i lavoratori autonomi e quelli dipendenti, quelli con un contratto a tempo determinato e quelli con un contratto a tempo indeterminato. Dunque, secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia lavora circa il 38,5 per cento dell’intera popolazione residente (che è di 60 milioni e 391 mila al 1° gennaio 2019).

Tra gli occupati, 5,3 milioni sono lavoratori autonomi. Come confermato da due avvocati esperti in diritto del lavoro contattati da Pagella Politica, è la categoria più importante non coperta da un contratto collettivo. I contratti di lavoro collettivi, come abbiamo visto, vengono infatti stipulati, semplificando, tra le aziende e i sindacati: i lavoratori autonomi, in quanto “dipendenti di se stessi”, non sono coinvolti.

La categoria dei dipendenti, comprendendo al suo interno persone che svolgono la propria professione come dipendenti di una azienda (sia essa pubblica, privata, di piccole, medie, o grandi dimensioni) sottostanno, almeno a livello teorico, ad un contratto di lavoro collettivo.

Perché a livello teorico? Esistono, di fatto, alcune eccezioni.

Non si scappa dal contratto

Come ci hanno spiegato alcuni esperti, non tutte le aziende aderiscono al contratto collettivo, né sono obbligate a farlo. Esistono, infatti, alcuni casi (la cui incidenza sul totale sembra essere bassa) in cui l’azienda, non aderendo all’associazione di riferimento, non è coinvolta nella stipula del contratto collettivo.

I lavoratori dipendenti sono, però, ugualmente tutelati. Oltre a quanto stabilito dalla Costituzione (art. 36) sulle retribuzioni che devono essere proporzionate e in ogni caso sufficienti ad assicurare un’esistenza dignitosa, il valore minimo “garantito” al singolo lavoratore viene fissato, in assenza di contratto collettivo, guardando comunque ai parametri delle tabelle salariali contenuti nel contratto di settore di appartenenza o simile.

Questa valenza del contratto collettivo anche per chi non vi ricade formalmente è stabilita dalla giurisprudenza, ribadita qualche anno fa anche da una sentenza (n. 51/2015) della Corte Costituzionale. Secondo i giudici della Consulta, i trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi fanno da parametro per i giudici nel definire la proporzionalità e la sufficienza (requisiti fissati dall’art 36 della Costituzione) del trattamento economico da corrispondere al lavoratore.

Dunque, riassumendo: il contratto collettivo non coinvolge i lavoratori autonomi (o indipendenti) ma solo quelli dipendenti. Tra questi, però, è possibile che non tutti lavorino per un’azienda che ha aderito a un contratto collettivo. Ad ogni modo, anche chi non è tutelato dal contratto collettivo può comunque fare ricorso al giudice – ma questo è già di per sé un ostacolo, viste le possibili ripercussioni da un punto di vista lavorativo – perché la sua retribuzione venga portata al livello dei trattamenti economici minimi previsti dai contratti collettivi.

Possiamo stimare un rapporto 80:20?

Il rapporto tra dipendenti e autonomi è di quattro a uno, le percentuali suggerite da Calenda?

Prendendo in esame i dati Istat, i 17,9 milioni di lavoratori dipendenti corrispondono a circa il 77 per cento del totale degli occupati (23 milioni 291 mila al 30 aprile 2019). In prima approssimazione, questa categoria rappresenta coloro che hanno un contratto collettivo. I restanti 5,3 milioni di lavoratori autonomi, invece, incidono per il 23 per cento sul totale e non hanno di certo un contratto collettivo.

Abbiamo contattato il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) per avere conferma delle nostre stime e conoscere il numero assoluto dei lavoratori che ricadono sotto contratto collettivo. Al 7 giugno 2019 siamo ancora in attesa di una risposta.

Il rapporto percentuale dipendenti/autonomi si avvicina molto a quello riportato da Calenda.

Contratto collettivo e salario minimo

Come abbiamo verificato in passato, l’Italia fa parte di un gruppo di soli sei Paesi nella Ue che non hanno un salario minimo legale. Gli altri Stati sono esattamente quelli che hanno una copertura dei contratti collettivi superiore alla nostra: Svezia, Finlandia, Danimarca e Austria (c’è poi anche Cipro, ma non facendo parte dell’Ocse non abbiamo dati comparabili).

Ma non ha molto senso concludere che, se fosse introdotto il salario minimo questo si estenderebbe al 20 per cento di lavoratori italiani autonomi. Imprenditori, avvocati, notai e altri liberi professionisti che guadagnano già molto più del minimo sindacale non ne sarebbero coinvolti. I beneficiari della misura, al netto delle false partite Iva e altre situazioni eccezionali tra gli autonomi, sarebbero più che altro quei dipendenti non tutelati dal contratto collettivo che non fanno ricorso ai giudici del lavoro – che, come abbiamo visto, gli riconoscerebbero il minimo contrattuale grazie alla giurisprudenza costituzionale – per paura di perdere il posto. E non sono certamente il 20 per cento dei lavoratori in Italia.

Il verdetto

Carlo Calenda ha dichiarato che in Italia l’80 per cento dei lavoratori ha un contratto nazionale, mentre il 20 per cento no.

In Italia i lavoratori dipendenti corrispondono a circa il 77 per cento del totale, mentre quelli autonomi sono circa il 23 per cento. In prima approssimazione, i primi sono coperti da un contratto di lavoro collettivo, anche se ci sono aziende che possono decidere di non aderire a nessuna specifica organizzazione di categoria.

Non influisce sul verdetto, considerato che il tema non è presente nella dichiarazione ma nel contesto: notiamo però che non ha molto senso associare questa percentuale al salario minimo – se davvero è questo ciò a cui fa riferimento Calenda – visto che tra gli autonomi ci sono imprenditori e liberi professionisti che non sarebbero interessati dalla misura, mentre i più interessati si trovano tra i dipendenti ma sono una piccola minoranza.

La percentuale è comunque quasi esattamente quella indicata da Carlo Calenda, che merita quindi un “Vero”.