Il 10 febbraio Alessandro Di Battista, ospite a Mezz’ora in più su Rai 3, ha di nuovo criticato la Francia e le sue influenze sull’economia di alcuni Stati africani. Secondo l’ex deputato del Movimento 5 stelle, «da qui a 30 anni avremo un’Africa sempre più povera, con esodi e maggiori flussi migratori» (min: -17:48).



Ma è davvero così? Abbiamo verificato.



La povertà in Africa, oggi



A livello globale, la percentuale di popolazione che vive in condizione di povertà estrema è calata sensibilmente, riducendosi di oltre due terzi rispetto a quella di inizio anni Novanta.



Ancora oggi, però, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 590 milioni di persone vivono con meno di 1,70 euro al giorno. Sono il 7,8 per cento di tutti gli abitanti del pianeta (oltre 7,5 miliardi); nel 1990 erano quasi il 27 per cento.



Di questi, oltre 422 milioni si trovano in Africa, ossia il 33,6 per cento della popolazione totale del continente (circa 1 miliardo e 260 milioni di persone). In sostanza, oltre un africano su tre vive in condizioni di povertà estrema, e due abitanti su tre della Terra in condizioni di estrema povertà sono africani. Come mostra il World Poverty Clock delle Nazioni Unite, ogni minuto nel continente africano 5 persone entrano a far parte di questo gruppo.



Le diversità nell’economia africana



Questi dati tradiscono una realtà più complessa. Gli oltre 50 Stati africani, infatti, hanno economie molto diverse tra loro, come mostra ad esempio il rapporto Africa’s Pulse del 2018, pubblicato dalla Banca Mondiale.



Ciò si riflette anche sui tassi di crescita del Pil.



Tra il 2015 e l’anno scorso, 11 Paesi (Burkina Faso, Costa d’Avorio, Etiopia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Kenya, Mali, Ruanda, Senegal e Tanzania) hanno avuto in media aumenti del Pil superiori al 5,4 per cento. In questi Stati vive circa il 20 per cento della popolazione continentale.



Nello stesso periodo, tra il 2015 e il 2018, altri 7 Paesi (Burundi, Isole Comore, Repubblica del Congo, Swaziland, Gabon, Lesotho e Zimbabwe) – meno del 5 per cento dell’attività economica dell’Africa – hanno registrato aumenti del Pil intorno all’1,3 per cento, tra i più bassi del continente, dopo aver raggiunto una media di +2,6 per cento tra il 1995 e il 2008.



Oltre a questi due gruppi, c’è un insieme eterogeneo di Stati (circa il 60 per cento dell’attività economica del continente) che hanno rallentato la crescita registrata nel decennio scorso, e che si trovano ora in una situazione di stallo. Tra questi Paesi, ci sono anche la Nigeria, il Sudafrica e l’Angola: tutte nazioni che da tassi di crescita del 5 per cento negli anni Novanta sono passati alla attuale media di +1,2 per cento tra il 2015 e il 2018.






Tab: 1 – Tassonomia di crescita del Pil dei Paesi africani – Fonte: Worldbank



Quali sono le cause?



Oltre alla crescita economica, altri elementi vanno presi in considerazione per considerare il fenomeno della povertà estrema.



Un altro aspetto importante riguarda infatti le dimensioni non monetarie della povertà. Rispetto al 1995, in Africa l’alfabetizzazione è cresciuta del 4 per cento e le differenze di genere si sono ridotte. L’aspettativa di vita è cresciuta di sei anni e la malnutrizione è calata di circa 6 punti percentuali, colpendo oggi circa 4 bambini su 10 sotto i cinque anni. Nonostante questo, secondo i dati della Banca mondiale, sette dei dieci Paesi al mondo con i tassi di disuguaglianza più elevata sono africani (Sudafrica, Namibia, Botswana, Zambia, Repubblica Centrafricana, Lesotho, e Swaziland).



Poi c’è la questione della crescente natalità. Come mostra il report Poverty in a Rising Africa, è vero che rispetto al passato, in rapporto alla popolazione, sempre più africani riescono a vivere con più di 1,70 euro al giorno. Ma mentre la povertà è diminuita, i poveri sono aumentati. L’apparente paradosso è dovuto al fatto che il numero di africani è ogni anno in aumento.



E anche in questo caso, con sensibili differenze all’interno dello stesso continente. Come spiega l’ultimo The Goalkeepers Report (stilato ogni anno dalla fondazione di Bill e Melania Gates), la riduzione della povertà deve essere una priorità dell’Africa per i prossimi 30 anni, ma il sempre più crescente aumento della popolazione nei Paesi africani più poveri – in particolare quelli della regione sub-sahariana – rendono l’obiettivo più difficile di quanto previsto negli scorsi anni.



La povertà in Africa, nei prossimi anni



Le Nazioni Unite propongono stime sul futuro della povertà in Africa fino al 2030. Tra 12 anni, qui circa 380 milioni di persone vivranno in condizioni povertà estrema, il 23,8 per cento della popolazione prevista (che nel frattempo sono saliti fino a circa 1,6 miliardi di abitanti). Dati, in termini assoluti, migliori dunque di quelli attuali – che vedono 422 milioni di africani vivere in povertà assoluta.



Il problema principale però in queste stime – oltre agli effetti difficilmente quantificabili delle guerre civili e del riscaldamento globale – resta l’aumento della popolazione africana, che si calcola possa raddoppiare entro il 2050 in circa 30 Paesi. E questo rende gli scenari per il futuro meno ottimistici di quanto previsto per i prossimi 10 anni.



Il numero di africani che vivono in condizioni di povertà si sta infatti sempre più concentrando in alcune aree del continente, ossia quelle con la crescita demografica più accentuata. Come prevede il rapporto già citato della fondazione Gates, tra oltre 30 anni, più del 40 per cento della popolazione mondiale in condizioni di povertà estrema vivrà in soli due Paesi, entrambi in Africa: la Nigeria e la Repubblica democratica del Congo.



«La concentrazione della crescita demografica nei Paesi africani più poveri renderà più difficile eradicare la disuguaglianza e la povertà dal continente, combattere la malnutrizione e la fame, ed espandere l’accesso all’educazione e ai sistemi sanitari», ha spiegato nel 2015 John Wilmoth, direttore della Divisione sulla popolazione nel Dipartimento degli Affari economici e sociali dell’Onu.



Che cosa succederà ai flussi migratori?



Il rapporto tra povertà e migrazioni, a cui fa riferimento Di Battista, non è così scontato come sembra. Secondo un luogo comune, a fuggire dagli Stati africani sarebbero i cittadini con meno risorse economiche. La decisione di scappare dai loro Paesi di origine sarebbe dettata solo dalla volontà di cercare condizioni di ricchezza e di vita più favorevoli.



In realtà, decenni di studi mostrano un quadro diverso. Almeno in parte, sembra essere vero il contrario: più aumenta la ricchezza di un Paese povero, ossia il suo Pil pro capite, più crescono i tassi di migrazione da quel Paese.



L’economista Michael Clemens, del Center for Global Development, ha etichettato questo fenomeno con il termine “gobba migratoria”: a migrare dai Paesi emergenti dell’Africa sono soprattutto le classi medie dei Paesi emergenti. Ma questa tendenza non è “infinita”: quando si raggiunge un certo livello di Pil pro capite (la cosiddetta “gobba”), stimata tra gli 8 mila e i 10 mila dollari, il tasso di emigrazione delle classi medie torna a calare.



Di conseguenza, non è scontato che, con l’aumentare della popolazione africana nei prossimi anni, siano i più poveri a decidere di cercare fortuna in Europa. Come evidenziato anche da un recente studio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e da altre ricerche nel settore, le migrazioni internazionali dall’Africa coinvolgono famiglie con i membri più ricchi e istruiti, che vivono in particolare nelle aree urbane. I “più poveri” invece, che stanno principalmente nelle aree rurali, decidono di non spostarsi, o cercano fortuna nei Paesi limitrofi.



A migrare non è quindi solo quella parte di popolazione che vive in condizioni di povertà. E quando decide di farlo, non necessariamente decide di spostarsi in Europa.



Come spiega uno studio del 2017 di Marie-Laurence Flahaux, ricercatrice dell’International Migration Institute Network, gli abitanti dell’Africa migrano meno rispetto al tasso di migrazione media di tutta la popolazione mondiale. Nonostante l’aumento demografico registrato dal 1990 in poi, la percentuale di migranti africani sul totale della popolazione è rimasto stabile, se non in leggero calo: dal 1990 al 2015, poco meno di 3 africani su 100 hanno scelto di vivere in un Paese diverso da quello di origine e del loro continente (rispetto alla media mondiale di 3,3). E di questi solo un quarto (quindi meno di 1 su 100) è registrato in Europa.



Questo però non significa che il numero totale dei migranti non aumenterà nei prossimi 30 anni.



Secondo le previsioni del 2018 fatte da un gruppo di ricerca della Commissione europea, entro il 2050 tra i 2,8 milioni e i 3,5 milioni di abitanti africani decideranno di lasciare il proprio Stato, in linea con la crescita demografica citata. Ma come abbiamo visto anche prima, è la stessa Ue a sottolineare che a partire saranno quelli in condizioni economiche e di istruzione più favorevoli, rispetto a quelli in condizioni di povertà estrema.



Le migrazioni future saranno una conseguenza anche di altri fattori, non solo economici, e non necessariamente implicheranno migrazioni verso altre nazioni. Come spiega il rapporto della Banca mondiale del 2018 Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration, entro il 2050 oltre 140 milioni di persone saranno costrette ad abbandonare le proprie case a causa dei cambiamenti climatici, rimanendo però sempre all’interno del proprio Paese di origine, e non all’estero.



Il verdetto



Secondo Alessandro Di Battista, entro il 2050 l’Africa sarà un continente più povero e più persone decideranno di abbandonare i loro Paesi per raggiungere l’Europa. L’ex deputato del Movimento 5 stelle ha ragione, con due precisazioni.



In primo luogo, non è detto che l’Africa sarà in assoluto più povera entro il 2050. Nel 2030, si stima che in Africa ci saranno 380 milioni di persone in condizioni di povertà estrema – contro i 422 milioni attuali. Nel 2050, però, la popolazione africana potrebbe essere aumentata fino al raddoppio: di conseguenza, tra trent’anni i poveri in Africa potrebbero essere di più in termini assoluti rispetto a oggi, ma meno in rapporto al totale della popolazione.



Il collegamento tra povertà e migrazione è poi meno scontato di come affermato da Di Battista. Un ipotetico aumento della povertà non causerà automaticamente un «esodo» di migranti verso l’Europa. A scappare dall’Africa, infatti, non sono necessariamente i più poveri; anzi, è soprattutto chi ha una sufficiente disponibilità economica che decide di cercare fortuna all’estero. Si stima comunque che il numero dei migranti sarà maggiore rispetto a quello attuale, in linea con la crescita demografica dell’intero continente. In conclusione, Di Battista merita un C’eri quasi.