In una conferenza stampa ai primi di aprile, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha fatto un rapido riferimento al fatto che la “sinistra radicale” fosse contraria all’introduzione della TV a colori in Italia. Quello di Renzi è stato solo un inciso, e non è certo una questione su cui il dibattito politico sia rovente – non si stava parlando di riforma della Rai né di altro in tema – ma dà la possibilità di aprire una finestra su una pagina poco conosciuta della storia recente italiana.



Un “caso nazionale”



La storia dell’introduzione della TV a colori in Italia è stata ricostruita qualche anno fa in un saggio di Gloria Gabrielli, che insegna all’Università La Sapienza di Roma (L’introduzione della televisione a colori in Italia: 1962-1977*). Come ricostruisce la studiosa, e per quanto possa sembrare sorprendente, le opposizioni ai colori televisivi furono numerose fin dagli anni Sessanta. L’effetto fu un ritardo di un decennio dell’arrivo dei colori sugli schermi delle TV italiane, oltre a danneggiare le industrie elettrotecniche nostrane.



La TV in bianco e nero arrivò in Italia nel 1954, lo stesso anno in cui vennero avviate le prime trasmissioni a colori negli Stati Uniti (con diversi problemi e scarso successo, almeno inizialmente). Il grosso della diffusione del colore, nei Paesi occidentali, avvenne a partire dal 1965 circa, una volta migliorate le tecnologie. In Italia, però, i colori avrebbero dovuto aspettare ancora parecchio, per una serie di opposizioni provenienti da associazioni, sindacati e partiti – non solo della “sinistra radicale”.



La questione, scrive Gabrielli, fu un “caso nazionale” che si trascinò per circa quindici anni: mentre la Rai aveva fatto i primi esperimenti di trasmissioni a colori già nel luglio 1962, si dovette aspettare un decreto ministeriale del 27 gennaio 1977 perché venisse finalmente deciso, dal 1° febbraio successivo, il passaggio alle trasmissioni policrome. Ma passiamo in rassegna qualcuna delle posizioni contrarie.



Problemi tecnici e previsioni allarmistiche



La prima associazione di consumatori nata in Italia (l’Unione Nazionale Consumatori, fondata nel 1955) non la vedeva di buon occhio. In un articolo dal titolo – già un po’ spazientito – E adesso anche a colori? sulla rivista “Il consumatore” del giugno 1966, ci si esprimeva contro l’innovazione perché la gente avrebbe speso risorse per questa ‘moda’ sacrificando i “consumi necessari”, come “l’igiene della casa, l’alimentazione e l’istruzione dei figli”.



Questa era la critica principale che veniva mossa ai colori TV in quegli anni, almeno sul piano ideologico: poiché mancavano ancora servizi sociali importanti, era meglio aspettare con quell’innovazione “superflua”. Molti, scrive Gabrielli, “si abbandonarono a previsioni allarmistiche se non addirittura catastrofiche sulle conseguenze che l’introduzione del colore avrebbe prodotto nella spesa dello Stato e delle famiglie” (pag. 70).



Sul piano politico, il problema si intrecciava con opposte visioni di come governare lo sviluppo economico degli anni del boom: se lasciar fare al mercato o prendere misure per guidare – e nel caso limitare – i consumi.



La TV a colori si accompagnava anche a problemi tecnici non indifferenti. Bisognava scegliere quale sistema adottare per le trasmissioni, una scelta con risvolti diplomatici-commerciali (in ballo c’erano l’americano Ntsc, il francese Secam o il tedesco Pal – che alla fine fu il vincitore) e diversi ministeri erano coinvolti nella scelta. Nel giugno 1966, il ministro del Bilancio Giovanni Pieraccini, socialista, espresse scetticismo sull’urgenza della questione, mentre il democristiano Giovanni Spagnolli, ministro delle Poste e Telecomunicazioni, disse che comunque non se ne sarebbe parlato prima del 1970.



Furono parecchi ad esprimersi contro il colore in TV, in parlamento. Vittorio Zincone del Partito Liberale disse, in un intervento alla Camera del 29 novembre 1966: “a me pare che una delle cose che si possono risparmiare […] è la televisione a colori […]. Vi sono comportamenti di sperpero nazionale che veramente non possono essere tollerati in questo periodo”.



L’opposizione di La Malfa



Tra gli oppositori più accesi c’era il repubblicano Ugo La Malfa, uno degli esponenti politici più importanti della Prima Repubblica. Insieme al socialista Luigi Anderlini – altro oppositore alla TV a colori – La Malfa presentò nel 1966 un emendamento al piano di programmazione economica che spostava oltre il 1970 l’introduzione della TV a colori. L’emendamento venne approvato e la posizione del governo italiano, almeno alla metà degli anni Sessanta, diventò quindi quella di rimandare.



Era opinione diffusa tra molte forze politiche che lo Stato non dovesse permettere l’introduzione di un consumo non necessario: La Malfa spiegò la sua opposizione dichiarando che gli italiani sarebbero stati spinti a spendere tra i mille e i duemila miliardi di lire per prodotti per lo più stranieri, pesando così sulla bilancia dei pagamenti. Molti erano d’accordo con lui, come il presidente della Commissione bilancio della Camera, il socialdemocratico Orlandi, che definì la spesa per la TV a colori “non necessaria”.



I produttori e gli industriali del settore elettrotecnico, riuniti in associazioni di categoria come l’Anie, contestarono le cifre di La Malfa ed espressero preoccupazione per il fatto che l’Italia sarebbe rimasta indietro nello sviluppo tecnologico (come in effetti avvenne: il livello qualitativo delle TV a colori italiane migliorò solo dopo il 1980). Sulla stampa, Il Sole 24 Ore criticò duramente la scelta del governo di rimandare, mentre tra i più duri oppositori ci fu La Voce Repubblicana (organo di stampa del Pri di La Malfa).



Intorno all’Italia



Il dibattito proseguì fino alla fine degli anni Sessanta. Nel frattempo, la TV svizzera cominciò le trasmissioni a colori nel maggio 1968 e i produttori di televisori tedeschi, avvantaggiati dall’introduzione del colore anche nel loro Paese, fecero una concorrenza molto dura al settore italiano.



La Malfa continuò la sua opposizione: in un’intervista con La Stampa del giugno 1969 dichiarò che “il Paese scoppia, non riesce a risolvere i suoi problemi di fondo. E gli vorremmo dare la televisione a colori”. Tra le grandi imprese, la Fiat sembrava essere assai fredda verso la policromia televisiva, temendo probabilmente che l’ondata di acquisti di nuovi apparecchi avrebbe fatto calare quelli di auto. Anche Antonio Lettieri della Cgil, e in generale il principale sindacato di sinistra, si espresse contro.



Il dibattito si trascina



Negli anni Settanta, ricostruisce Gabrielli, la polemica si trascinò senza che il governo e gli organismi tecnici riuscissero a prendere una decisione neppure sulla tecnologia di trasmissione. Nel 1972-1973, uno dei primi governi Andreotti rischiò di cadere perché il Pri minacciò il ritiro del suo sostegno proprio intorno alla questione della TV a colori. In quel periodo la Cgil scrisse in una nota che “L’adozione della televisione a colori si muove in senso del tutto opposto […] alle esigenze del nostro Paese”. Nel frattempo, per la sua prima trasmissione a colori (nel 1975) Mike Bongiorno dovette andare in Svizzera.







Riassumendo gli schieramenti, nei primi anni Settanta erano contrari alla TV a colori soprattutto i repubblicani, tra le forze di maggioranza, insieme ad esponenti di quasi tutti gli altri partiti e a una minoranza della Democrazia Cristiana. Si erano espressi a favore, invece, i liberali. La stampa era divisa, allo stesso modo, tra i fortemente contrari (La Stampa), i favorevoli (Il Sole 24 Ore) e chi cercava di mantenere la linea governativa di cauta opposizione (Corriere della Sera).



La situazione venne risolta solo alcuni anni dopo. Nel 1972, con la scadenza della concessione monopolistica delle immagini TV alla Rai, si passò a discutere di riforma dell’ente. Questa venne varata solo nel 1975, e in quell’anno si arrivò finalmente alla convenzione tra Rai e Ministero delle Poste per l’uso del sistema tedesco Pal e l’inizio delle trasmissioni entro dodici mesi.



E la sinistra?



Nel saggio di Gloria Gabrielli la posizione della sinistra all’introduzione del colore non viene di fatto menzionata. Abbiamo chiesto qualche informazione in merito a Irene Piazzoni, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Milano e autrice del libro Storia delle televisioni in Italia (Carocci, 2014).



La professoressa Piazzoni, a cui dobbiamo anche la segnalazione del saggio di Gabrielli, ha confermato che l’opposizione “dirimente”, in quanto partito di maggioranza, fu quella dei repubblicani, e allo stesso tempo che, come mostra il saggio di Gabrielli, i contrari furono diversi ed espressione di vari interessi. Per quanto riguarda il Pci, qualche informazione sulla sua posizione nel dibattito si trova in un libro di Giandomenico Crapis, dal titolo Il frigorifero del cervello. Il Pci e la televisione da “Lascia o raddoppia?” alla battaglia contro gli spot (Roma, Editori Riuniti, 2002; pp. 88-91).



Il Partito Comunista Italiano, secondo la ricostruzione di Crapis, era sostanzialmente d’accordo con la posizione di quanti, all’interno dei governi di fine anni Sessanta-inizio anni Settanta, ritenevano la TV a colori un bene di consumo del tutto superfluo. Crapis cita diversi articoli dell’Unità che, nel dibattito accesissimo che si sviluppò nel 1972, mostrano bene la posizione “pedagogica” di contrarietà del Pci: “chi l’ha detto che gli italiani sono tanto ansiosi di vedere un telegiornale a colori quando le bugie e la disinformazione saranno le stesse, se non peggiori, di quelle in bianco e nero?”.



E ancora: il 29 settembre 1972, il senatore comunista Chiaromonte scrisse su Rinascita che “la TV a colori rappresenta un emblema di un tipo di sviluppo che è danno non solo ai lavoratori ma a tutto il paese e alla democrazia”, e che prima di parlare di policromia bisognava occuparsi della riforma della Rai, di maggiori garanzie di ordine sociale e, per giunta, di “una direzione politica del tutto diversa da quella che regge attualmente il paese”.



Il verdetto



Matteo Renzi ha detto che la “sinistra radicale”, in Italia, si opponeva all’introduzione della TV a colori. È certamente vero, ma uno sguardo ai libri di storia mostra che le responsabilità del grande ritardo nella sua introduzione non sono solo del Pci, anzi. Nella maggioranza di quegli anni, il Partito Repubblicano ebbe sempre una posizione nettamente contraria, all’interno di un dibattito molto ampio che si trascinò a lungo e coinvolgeva molte altre forze politiche e sociali. “C’eri quasi” per il Presidente del Consiglio.



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* Il saggio è contenuto in La paura della modernità. Opposizioni e resistenze allo sviluppo industriale, a cura di Piero Melograni, Roma, Cedis, 1987, pp. 67-90.