Dopo quasi due mesi di contrasti all’interno della maggioranza, il 13 gennaio il leader di Italia viva Matteo Renzi ha ritirato le proprie ministre dall’esecutivo. Nelle ore successive, tuttavia, la situazione è sembrata in stand-by o quantomeno in slow motion: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non si è dimesso e non c’è stato immediatamente (o almeno il giorno dopo) un voto in Parlamento.

Non è chiaro quali saranno le evoluzioni dei prossimi giorni. Senza cedere alla tentazione delle previsioni e dei retroscena, abbiamo cercato di rispondere a tre domande che in molti si stanno facendo in queste ore.

Perché il presidente del Consiglio non si è ancora dimesso?

Dopo il ritiro della delegazione di Italia viva dal governo (le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, e il sottosegretario Ivan Scalfarotto), in tanti si aspettavano le dimissioni del presidente del Consiglio Conte. Il premier si è invece limitato, il 14 gennaio, a incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e assumere l’interim del ministero delle Politiche agricole (ovvero se ne occuperà la presidenza del Consiglio fino alla scelta di un nuovo ministro). Questo è possibile perché, come abbiamo spiegato nel nostro glossario, molti dei passaggi di una crisi di governo non derivano da obblighi costituzionali o legislativi bensì dalla prassi, sono insomma “rituali”. In altri termini, il premier non aveva davanti una strada predeterminata da seguire né l’obbligo di dimettersi dall’incarico.

A questo proposito, un precedente illustre spesso citato in questo giorni è quello del sesto governo Andreotti (1989-1991). Come ricorda la rivista giuridica Federalismi (pag. 12), «già il 26 luglio 1990 il governo Andreotti dovette fronteggiare una prima crisi interna, a seguito delle dimissioni di cinque ministri appartenenti all’area della sinistra democristiana, dopo che il Governo aveva deciso di porre la questione di fiducia su un disegno di legge di riforma dell’emittenza radiotelevisiva (“legge Mammì”)». Curiosità: di questi cinque ministri dimissionari, uno era proprio Sergio Mattarella, allora ministro dell’Istruzione e oggi presidente della Repubblica. Ebbene, in quell’occasione Andreotti non rassegnò le proprie dimissioni, ma si limitò a sostituire i cinque ministri con un significativo rimpasto e il governo non cadde. Almeno fino alla primavera successiva.

La situazione dell’attuale esecutivo era inoltre complicata da un altro aspetto. Il 14 gennaio, quindi il giorno dopo le dimissioni delle ministre di Italia viva, il Consiglio dei ministri è stato chiamato ad approvare (e ha approvato) la relazione con la quale chiederà al Parlamento l’autorizzazione a un nuovo scostamento di bilancio: altri 32 miliardi di euro di debito in più rispetto a quelli approvati per il 2020. Il passaggio, secondo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd), richiedeva un «governo nella pienezza delle sue funzioni». Una definizione difficilmente compatibile con un governo dimissionario.

Detto ciò, è vero che i tempi di questa crisi sono stati leggermente dilazionati con l’appuntamento alla Camera e al Senato per lunedì 18 e martedì 19 della settimana prossima. Un passaggio sollecitato dalle stesse camere e, secondo le ricostruzioni giornalistiche, gradito al Quirinale. Secondo il quirinalista Marzio Breda del Corriere della sera, il presidente del Consiglio «sa che una parentesi troppo lunga tra la rottura di Renzi e l’approdo in Aula non sarebbe giudicata bene dal capo dello Stato».

Che cosa succederà lunedì alla Camera e martedì al Senato?

La crisi verrà parlamentarizzata (per questo e altri termini tecnici che si sentono molto nelle ultime ore può esservi utile il nostro glossario). Lunedì 18 gennaio, alle ore 12, il presidente del Consiglio Conte renderà le proprie comunicazioni alla Camera, ovvero farà un discorso sull’attuale situazione. A seguire, ci sarà il momento fondamentale: il voto sulla fiducia al governo che verrà posta su una delle risoluzioni. Semplificando, un voto di fiducia sul governo, per capire se c’è ancora una maggioranza. Il giorno dopo, martedì, la stessa procedura si ripeterà al Senato.

Senza il gruppo parlamentare di Italia viva, per raggiungere la maggioranza saranno necessari i cosiddetti “responsabili”, parlamentari finora all’opposizione che decideranno di dare il proprio appoggio al governo perché non cada. La conta sarà particolarmente complicata al Senato, più che alla Camera. A Palazzo Madama, senza Italia viva, la maggioranza è ferma a quota 151. E dovrà raggiungere la maggioranza di 161.

Non è ancora certo che il presidente del Consiglio Conte e i partiti che lo sostengono si siano già garantiti i numeri necessari alla sopravvivenza dell’esecutivo.

Quali sono gli appuntamenti messi a rischio dalla crisi?

Con la crisi in corso – di cui non si può prevedere l’esito – due importanti appuntamenti parlamentari sono messi a rischio. Il calendario della Camera prevede – come abbiamo anticipato – per il 20 gennaio il voto per il via libera a un nuovo scostamento di bilancio da 32 miliardi. Non è certo che questo si possa fare con un governo dimissionario. Di certo non ci sono precedenti.

Il secondo appuntamento, più lontano ma non troppo, è quello con il Recovery plan italiano, ovvero il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Finalmente approvato dal Consiglio dei ministri il 12 gennaio, il testo del piano è ora atteso in Parlamento dove dovrà essere nuovamente esaminato. La scadenza ufficiale per l’invio alla Commissione europea è il 30 aprile 2021.