Morti e Covid: i dati in Italia sono preoccupanti e dicono che non stiamo trovando tutti i contagi

Ansa
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Nell’ultima settimana in Italia sono stati registrati in totale oltre 2.500 morti da nuovo coronavirus, con una media di più di 350 decessi al giorno.

Sono numeri molto alti, soprattutto se paragonati con quelli di sole poche settimane fa: a inizio ottobre, infatti, la media dei decessi giornalieri era inferiore a 30, un dato dieci volte più basso di quello attuale.

Inoltre, continua a crescere il numero di decessi in rapporto ai casi diagnosticati – la cosiddetta “letalità apparente” – segnale che si trovano di nuovo troppi pochi casi rispetto a quelli che ci sono realmente.

Ma come sono variate nell’ultimo periodo le statistiche italiane sui morti da coronavirus? Quali sono le caratteristiche delle persone più a rischio e come sta andando la situazione negli altri Paesi europei?

Abbiamo analizzato che cosa dicono i dati a disposizione e con il continuo aumento dei contagi nel nostro Paese lo scenario sulla mortalità sembra farsi sempre più grave, soprattutto se confrontato con gli altri Stati del continente.

L’aumento delle morti

In Italia i decessi da coronavirus sono stati particolarmente bassi durante l’estate, quando la circolazione del contagio è stata abbastanza contenuta.

Ad agosto morivano in media dieci persone al giorno contagiate dal virus, ma a settembre si è iniziato a vedere un aumento, nonostante i numeri siano rimasti nel complesso contenuti. Nella seconda metà di ottobre i dati sui decessi hanno però registrato una forte accelerazione, diretta conseguenza dell’aumento delle decine di migliaia di nuovi casi registrati nelle settimane precedenti.

Dal 2 all’8 novembre nel nostro Paese sono decedute per la Covid-19 2.568 persone; la settimana precedente erano state 1.488 e quella ancora prima 795. Nonostante si stia assistendo a un rallentamento della crescita percentuale dei decessi, il loro numero rimane ancora elevato: nell’ultima settimana il numero dei morti è stato il 73 per cento in più rispetto a quello della settimana precedente.

Per avere un metro di paragone, basti pensare che nel momento peggiore dell’epidemia, il 27 marzo, si arrivò a 969 decessi notificati in un solo giorno.
I problemi delle sottostime

È possibile che anche adesso – come avvenuto negli scorsi mesi, in particolare durante la prima ondata – non si stiano intercettando tutti i decessi legati al coronavirus.

Vediamo un esempio concreto. Negli ultimi 15 giorni, nel solo comune di Torino – in base ai dati forniti dall’assessore comunale Marco Giusta – si sono avuti 285 decessi in più rispetto allo stesso periodo del 2019, ma in tutta la provincia di Torino risultano 154 decessi per Covid-19 tra il 24 ottobre e il 7 novembre. In particolare, si è registrato un +71 per cento dei decessi in casa, un +8 per cento nelle Rsa e un +41 per cento in ospedale.

Il rischio, insomma, è che ancora una volta la pressione sul sistema ospedaliero – ormai elevatissima in Piemonte – non permetta di conoscere la reale portata del fenomeno.

Chi muore di coronavirus

Vediamo adesso quali sono le caratteristiche dei morti per coronavirus nel nostro Paese.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), al 4 novembre l’età media dei deceduti in Italia positivi al coronavirus era di 80 anni e quella mediana di 82. Il 57,4 per cento dei decessi aveva riguardato uomini.

Dunque, è vero che i più colpiti in termini di decessi sono soprattutto gli over 80, ma bisogna ricordare che, seppur pochi rispetto al totale, sono stati registrati parecchi decessi anche nelle fasce di popolazione non anziane. Per esempio, tra i 50 e i 59 anni ne sono stati registrati 1.358 e altri 339 tra i 40 e i 49 anni.

L’età media delle persone decedute per Covid-19 è rimasta sostanzialmente uguale da marzo.
Figura 1. Età media dei pazienti deceduti e positivi al coronavirus – Fonte: Iss
Figura 1. Età media dei pazienti deceduti e positivi al coronavirus – Fonte: Iss
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Da mesi, ormai, circola la teoria secondo cui la Covid-19 non sia la causa principale di morte tra i deceduti positivi al coronavirus e che muoiano soprattutto persone anziane, con altre patologie, già di per sé destinate ad avere una vita ormai molto breve. Ma le cose non stanno così.

La confusione nasce dal fatto che, secondo i dati Iss, il 65 per cento circa dei deceduti aveva tre o più patologie preesistenti, mentre solo poco più del 3 per cento non ne aveva nessuna.

Da qui a dire però che oltre sei decessi su 10 non sono morti per coronavirus ce ne passa. In primo luogo, bisogna sottolineare che tra le patologie preesistenti più diffuse ci sono il diabete e l’ipertensione arteriosa, con cui un paziente può convivere per molti anni.

In secondo luogo, quello che conta davvero è un altro dato. A luglio scorso, Iss e Istat hanno pubblicato i risultati delle analisi di quasi 5 mila cartelle cliniche di persone decedute e positive al coronavirus: nell’89 per cento dei casi la Covid-19 è stata la causa direttamente responsabile della morte. Questo significa – spiega il rapporto Iss e Istat – che «è presumibile che il decesso non si sarebbe verificato se l’infezione da Sars-CoV-2 non fosse intervenuta».

Considerando i decessi accertati al 16 luglio, si possono stimare circa 30 mila persone che in Italia non sarebbero morte se non avessero contratto il virus.

Per il restante 11 per cento di persone decedute non direttamente per Covid-19, il report sottolinea che la malattia è una causa «che può aver contribuito al decesso accelerando processi morbosi già in atto, aggravando l’esito di malattie preesistenti o limitando la possibilità di cure».

Tra i 60-69 anni, la percentuale della causa diretta di morte sale al 92 per cento, mentre sotto i 50 anni si scende all’82 per cento. Iss e Istat hanno poi evidenziato come nel 28 per cento dei casi non vi fossero altre concause.

Quanto è letale il coronavirus

Ma qual è davvero il rischio di morire per coronavirus in Italia, una volta contagiatisi?

Innanzitutto va chiarito che esistono due dati principali sulla letalità del coronavirus. Il primo è la cosiddetta “letalità apparente” (o Cfr, dall’inglese Case fatality rate), ossia la proporzione di decessi sul numero di casi confermati; il secondo indicatore è la “letalità plausibile” (o Ifr, dall’inglese Infection fatality rate), ossia la proporzione di decessi sul numero di tutti i contagi totali, considerando anche i casi che sono sfuggiti, per così dire, al sistema di controllo.

Quanti contagiati confermati muoiono

La letalità apparente si può ottenere semplicemente dai dati diffusi ogni giorno dalla Protezione Civile, dividendo il numero dei decessi per quello dei casi diagnosticati.

Bisogna considerare però che passa diverso tempo tra quando una persona si contagia e quando muore, ma non è possibile sapere con precisione quando si è contagiata una persona morta in un dato giorno. Dunque, per stimare la letalità apparente in maniera più precisa, bisogna dividere i decessi per i casi di qualche giorno prima, applicando vari ritardi plausibili.

Nel Grafico 2 si vedono vari ritardi applicati (da sette a 14 giorni) tra i decessi e i casi ed emerge che il Cfr, a un certo punto nella seconda metà di settembre, ha avuto un considerevole aumento.
L’aumento può essere dovuto a due fenomeni diversi: si sono contagiate più persone a rischio (per esempio, tra gli anziani) o abbiamo iniziato a sottostimare i casi.

Visto che l’indicatore della letalità apparente dipende dai casi che si trovano, se l’indicatore sale troppo può voler dire che si è di fronte a un fenomeno di sottodiagnosi, cioè si trovano troppi pochi casi di fronte a quelli che ci sono realmente.

C’è poi un altro fenomeno. A partire da ottobre i Cfr cambiano molto a seconda dell’intervallo di ritardo che si applica. L’unico ritardo che mantiene il Cfr basso è quello di sette giorni, mentre quello a 14 giorni lo alza sensibilmente arrivando a toccare il 2,6 per cento. Questo è abbastanza indicativo del fatto che, molto probabilmente, siamo di fronte a un fenomeno di sottodiagnosi.

Qual è il ritardo di giorni corretto da applicare per avere un indicatore della letalità apparente il più preciso possibile? È molto difficile dirlo: si conoscono i decessi per data di notifica e non per data di registrazione, ma passa del tempo tra quando avvengono e quando vengono comunicati. È probabile che un ritardo di dieci giorni possa essere l’intervallo più realistico.

La vera letalità del coronavirus

Veniamo adesso all’Ifr, che indica invece quanto è letale complessivamente il coronavirus. Le stime sono molto variabili e dipendono anche dalla demografia del Paese preso in considerazione: un Paese con una popolazione molto anziana, per esempio, avrà giocoforza più decessi di un Paese più giovane, a parità di diffusione del virus.

Secondo uno studio pubblicato a fine marzo sulla rivista scientifica The Lancet, l’Ifr stimato in Cina era dello 0,66 per cento. Ma adattando l’Ifr sulla piramide demografica italiana, la letalità plausibile salirebbe all’1,38 per cento, in quanto l’Italia è uno dei Paesi più vecchi al mondo.

I dati dei Centers for disease control and prevention – importante organismo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti – adattati all’Italia permettono di quantificare l’Ifr all’1,09 per cento.

Tra fine maggio e la prima metà di luglio, l’Istat ha invece condotto nel nostro Paese un’indagine sierologica, secondo cui durante la prima ondata si era contagiato il 2,3 per cento della popolazione nazionale. Usando questi dati e la struttura demografica italiana, si ottiene in questo caso un Ifr dell’1,7 per cento.

Un’indagine simile è stata condotta in Spagna. Usando la loro letalità per fasce d’età applicata alla demografia italiana, si ottiene che la letalità plausibile nel nostro Paese sarebbe pari all’1,27 per cento.

Come si vede, dunque, vi sono molte stime su quale sia la vera letalità del coronavirus, ma almeno per il caso italiano è molto probabile che si attesti sopra l’1 per cento.

In parole povere, questo significa che se si infettasse l’intera popolazione del nostro Paese ci sarebbero almeno 600 mila decessi.

I decessi nel resto d’Europa

Infine, cerchiamo di capire come sta andando la situazione nel resto del continente. In generale, durante questa seconda ondata, nella maggior parte dei Paesi europei stanno aumentando, oltre i casi totali, anche i decessi.

Come si vede però dal Grafico 3 – elaborato da Our World in Data – è evidente che l’Italia sta avendo una crescita più pronunciata degli altri Stati europei, se si rapporta il numero di morti con quello della popolazione.
In Francia e Spagna – due dei Paesi colpiti per primi dalla seconda ondata – i decessi hanno iniziato a crescere sensibilmente solo nelle ultime settimane, nonostante i casi siano saliti molto già a fine agosto. L’Italia al momento ha più decessi per milione di abitanti anche del Regno Unito, Paese che già a fine settembre era oltre i 10 mila casi giornalieri e ha più o meno una popolazione simile a quella italiana.

In particolar modo, confrontando la situazione italiana con quella francese, è evidente che i decessi in Italia hanno iniziato a crescere molto prima. In Francia i decessi giornalieri hanno superato i 2 per milione di abitanti il 20 ottobre e in Italia il 27 ottobre. Ma il 20 ottobre in Francia si registravano 365 nuovi casi per milione di abitanti, mentre in Italia “solo” 281.

Questo potrebbe essere dovuto al fatto, per esempio, che in Italia sono colpite fasce della popolazione più a rischio.

In conclusione

Da inizio ottobre a fine novembre, nel nostro Paese il numero di decessi giornalieri da coronavirus è aumentato di circa dieci volte: solo nell’ultima settimana i morti legati all’epidemia sono stati più di 2.500, circa 350 al giorno, contro i circa 30 di oltre un mese fa.

La crescita dei decessi è molto probabilmente dovuta a due fattori: alla maggiore circolazione del virus e al fatto che le persone più anziane sono di nuovo particolarmente colpite dal contagio.

La crescita della letalità apparente suggerisce invece che siamo, ancora una volta, di fronte a un fenomeno di sottodiagnosi, cioè che i limiti alla capacità di testing in Italia non permettano più di intercettare la maggior parte dei casi.

I decessi italiani poi stanno crescendo più velocemente rispetto agli altri Paesi europei e il “vantaggio” che l’Italia aveva nella seconda ondata appare ormai svanito.

Considerando i ritardi che intercorrono tra il contagio, il decesso e la notifica è altamente probabile che si continuerà ad assistere nelle prossime settimane a una crescita delle vittime da coronavirus.

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