Nelle ultime settimane, con l’aumento dei contagiati e dei ricoveri ospedalieri per Covid-19 in Italia, si sente spesso dire che rispetto ai mesi scorsi la capacità di gestione dell’emergenza sarebbe migliorata.

Questo è solo in parte vero, ma ci sono ancora lacune nei dati e molte differenze tra regione e regione.

Premettiamo subito che c’è poca trasparenza da parte delle istituzioni sulla divulgazione dei numeri dell’emergenza. Per esempio, le statistiche che sono divulgate ogni giorno dalla Protezione civile e settimanalmente dall’Istituto superiore di sanità (Iss) sono parziali e non permettono di comprendere nel dettaglio una serie di parametri su come si sta evolvendo la gestione dell’epidemia nel nostro Paese.

In realtà esiste un report di monitoraggio settimanale, molto dettagliato e realizzato dall’Iss e dal Ministero della Salute (in base a un decreto dello scorso 30 aprile) che però è a uso interno e non viene pubblicato nella sua versione integrale, ma in una forma più breve.

Per fortuna, il sito di settore Quotidiano sanità divulga ogni settimana tutte le pagine del documento, i cui dati permettono di stabilire quanto le regioni italiane sono davvero in grado di monitorare e gestire i nuovi contagi.

Abbiamo analizzato i numeri contenuti nell’ultimo report dell’Iss e del Ministero della Salute (aggiornato al 1° settembre e relativo alla settimana dal 24 al 30 agosto) e abbiamo scoperto che ci sono ancora alcuni limiti e molte differenze tra regione e regione nella capacità di trovare i nuovi casi di Sars-CoV-2. Vediamo i dettagli.

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Quanto sono completi i dati

Uno dei primi problemi che emerge dal report riguarda la definizione delle date di inizio dei sintomi da Covid-19 per chi è sintomatico e del comune di residenza o domicilio dei soggetti positivi.

La data di inizio dei sintomi

Dall’ultimo report, su un campione totale nazionale di 7.620 casi, emerge che in media in circa il 10 per cento dei casi non si conosce la data di inizio dei sintomi. In Campania, la regione peggiore, la percentuale arriva al 37 per cento. In Veneto succede per il 32 per cento dei casi e in Sicilia per il 33 per cento. In sole sette regioni il dato è completo.

La statistica sulla data di inizio dei sintomi è uno dei più utili, dal momento che viene utilizzato dalla Fondazione Bruno Kessler (un ente di ricerca di interesse pubblico) per stimare l’indice Rt, o “numero di riproduzione”, ossia il numero medio di infezioni secondarie generate a una certa data da una persona infetta.

Questo indice è dunque fondamentale per capire l’andamento dell’epidemia, ma la parziale assenza dei dati sull’inizio dei sintomi può rendere meno affidabile la stima di Rt.

Il comune di residenza o domicilio

Più completi sono invece i dati in merito al comune di residenza o domicilio dei contagiati: questa informazione è presente in media per il 98 per cento dei casi rilevati. In alcune aree territoriali, come la Provincia autonoma di Trento, il valore scende al 93 per cento, mentre è presente al 100 per cento in sei regioni.

In Emilia-Romagna per il 2,7 per cento dei casi non è stata comunicata la data in cui le persone positive sono state ricoverate in ospedale. Nelle altre regioni invece il dato è completo, tranne che in Campania, dove manca per un caso ogni cento ricoverati.

Da dove vengono i contagi

Dei 7.620 casi analizzati dal report, per 2.376 non si conosce l’origine del contagio, un dato fondamentale per gestire al meglio la diffusione del virus e interrompere la crescita di eventuali focolai. Quasi un terzo dei casi infatti non sono associati a «catene di trasmissione note».

Vi sono però significative differenze regionali.

In Lazio solo l’1,1 per cento dei casi (su 736 casi) hanno origine sconosciuta, mentre in Molise il 92,9 per cento (su “soli” 14 casi). In Piemonte e in Sardegna non si conosce la catena di trasmissione per il 7 per cento dei casi, mentre in Lombardia la percentuale sale al 65,1 per cento (su 1.667 casi, il dato più di tutta Italia). Anche in Toscana per il 63,2 per cento dei casi non si conosce l’origine. Non è nota in circa un terzo dei casi in Calabria, Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia.

Le uniche due regioni in cui tutti i casi sono associati a focolai noti sono la Basilicata (con però “soli” 18 casi) e il Veneto (835 in Veneto).

Le diagnosi da screening

Il report distingue anche i casi in base al fatto se sono stati trovati attraverso operazioni di «screening» o meno, anche se dal documento non è immediatamente chiaro che cosa si intenda con questa definizione.

Un risposta a questo dubbio viene da un comunicato pubblicato lo scorso 25 giugno dal Ministero della Salute, dove si legge sul proprio sito che i casi da screening sono quelli che «emergono da indagini e test, pianificati a livello nazionale o regionale, che diagnosticano casi positivi al tampone». Rientrano in questa casistica, per esempio, contagiati trovati positivi al Sars-CoV-2 dopo un’indagine sierologica in un’azienda o in una scuola.

Nella settimana tra il 24 e il 30 agosto, 4.668 casi (il 61 per cento sul totale del campione) non sono stati trovati durante operazioni di screening. I restanti casi individuati (per esempio con tamponi durante l’attività clinica) sono stati l’89,3 per cento in Sardegna e l’84,2 per cento in Emilia-Romagna. Il minimo si raggiunge in Molise (35,7 per cento) e in Campania (35,4 per cento).

In Lombardia circa 47 casi su 100 sono arrivati da operazioni di screening.

I “veri” tassi di positività

Un altro dato che è difficilmente calcolabile dai report pubblici della Protezione civile e dell’Iss riguarda i tassi di positività dei tamponi effettuati, ossia il numero di persone positive trovate sul numero di tamponi effettuati, escludendo quelli di controllo, quelli ripetuti e quelli fatti per lo screening.

Come abbiamo già spiegato di recente, la Protezione Civile diffonde ogni giorno il numero di tamponi eseguiti (dove sono compresi anche quelli di controllo e quelli doppi per stabilire chi è guarito o meno) e il numero di persone testate, ma non quello dei soli tamponi diagnostici (quelli fatti per individuare un nuovo positivo).

I dati del monitoraggio settimanale permettono però di colmare questa lacuna, fornendo le statistiche che ci servono per calcolare i “veri” tassi di positività (che non contengono cioè conto, per esempio, dei doppi tamponi per i guariti).

Il report evidenzia come in Puglia e Sardegna oltre il 4 per cento dei tamponi diagnostici sia positivo. In Valle d’Aosta lo è il 3,8 per cento e in Lazio e Umbria il 3,3 per cento. Sono sotto l’1 solo Basilicata, Calabria, Molise e Toscana.

Rispetto alla settimana precedente c’è stato un peggioramento nella maggior parte delle regioni, con l’eccezione di Lazio e Molise. In particolare, in Puglia si è passati dal 2,7 al 4,1 per cento: ora in media si trova il 50 per cento in più di casi positivi a parità di tamponi.

Conoscere con precisione la crescita del tasso di positività è fondamentale, perché è indice del fatto che vi è una maggiore circolazione del virus sul territorio e che i casi non stanno aumentando solo perché si sono incrementati i test.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), inoltre, l’epidemia non è più sotto controllo quando il tasso di positività di una determinata area territoriale supera il 5 per cento.

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Le tempistiche dei tamponi e dell’isolamento

Un ulteriore parametro fondamentale per comprendere la reale rapidità nella gestione dell’epidemia riguarda il numero di giorno che in media trascorre tra quando le persone iniziano a sviluppare i sintomi e quando vengono sottoposte al tampone, e quello che trascorre tra il tampone e la messa in isolamento.

Il monitoraggio settimanale dell’Iss e del Ministero della Salute ancora una volta mostrano un’alta differenza da regione a regione.

Quanti giorni tra sintomi e tampone

A livello nazionale in media si viene testati dopo tre giorni da quando si sviluppano i sintomi, ma ci sono regioni che fanno peggio della media nazionale.

In Piemonte servono cinque giorni, mentre in Abruzzo, Emilia-Romagna, Sardegna e Bolzano quattro giorni.

Nella media ci sono regioni come Lazio, Marche, Trento, Puglia, Umbria e Veneto (tre giorni), mentre nelle restanti regioni due giorni.

Quanti giorni tra tampone e isolamento

Va invece meglio per quanto riguarda il tempo che passa tra l’inizio dei sintomi e l’isolamento, anche se per Emilia-Romagna e Lombardia (al terzo e primo posto per numero di casi) e Trento il dato non è disponibile.

A livello nazionale, in media passano due giorni dalla positività a un tampone all’isolamento e nella maggior parte delle regioni è inferiore al tempo tra inizio sintomi e diagnosi, segno che in diverse aree si procede prima all’isolamento quando vi è il sospetto di un caso positivo e poi al tampone.

Se per il Sars-CoV-2 si considera un periodo di incubazione (cioè quello che intercorre tra il contagio e lo sviluppo dei sintomi) di cinque giorni, in Italia le persone positive si trovano in media sette o otto giorni dopo da quando sono state contagiate.

Quante persone lavorano nella “ricerca dei contatti”

Infine, una novità che è stata introdotta negli ultimi mesi riguarda le persone impiegate nelle attività di contact tracing, ossia nelle attività di sorveglianza dei sospetti contagiati e dei loro contatti.

C’è o no maggiore omogeneità in questa statistica rispetto a quanto visto in alcune delle precedenti?

Nelle informazioni contenute nel report, c’è il numero di persone per 10 mila abitanti impiegate nelle attività di contact tracing. In totale a livello nazionale risultano essere circa 2.900: meno di una ogni 20 mila abitanti.

La regione con più persone in assoluto impiegate nella ricerca dei contatti è il Veneto, con circa 490. Dopo c’è il Lazio con circa 410 persone e poi la Lombardia con 402. Se invece si guarda questo dato in rapporto alla popolazione, le regioni più virtuose sono la Provincia autonoma di Trento e il Molise, con 1,1 persone ogni 10 mila abitanti, seguite da Basilicata, Valle d’Aosta e Veneto con una persona ogni 10 mila abitanti.

Le peggiori regioni invece sono Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Sardegna e Sicilia, con 0,3 persone per 10 mila abitanti.

Le persone dedicate «in ciascun servizio territoriale alle attività di prelievo/invio ai laboratori di riferimento e monitoraggio dei contatti stretti e dei casi posti rispettivamente in quarantena e isolamento» sono invece circa 6 mila. Il massimo è sempre in Veneto con 883, seguito dalla Lombardia con 704.

In rapporto alla popolazione la Basilicata ha 6,9 persone ogni 10 mila abitanti impiegate in queste attività e il Veneto 1,8. Le altre regioni sopra una persona per 10 mila abitanti sono Valle d’Aosta, Umbria, Sardegna, Trento, Bolzano, Molise e Liguria.

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In conclusione

Nelle ultime settimane, caratterizzate da un aumento dei contagi e di ricoveri da Covid-19, si sente spesso dire che in Italia siamo migliorati nella gestione dell’emergenza.

Ma dalle nostre elaborazioni dei dati contenuti nel report di monitoraggio settimanale dell’Iss e del Ministero della Salute (relativo a oltre 7 mila casi della settimana tra il 24 e il 30 agosto), sono emersi da un lato la mancanza ancora troppo grande di dati, dall’altro lato una notevole differenza tra le prestazioni delle varie regioni.

Per esempio, in Italia per circa tre casi su dieci non si sa come si sono contagiati e sei casi su dieci non sono stati trovati grazie alle operazioni di screening. I casi sintomatici vengono invece trovati abbastanza rapidamente, ma permangono ampie differenze regionali.

Le persone impiegate nella ricerca dei contatti non sembrano essere molte, mentre coloro che invece sono impiegati nelle altre attività relative al coronavirus sono di più. Qui c’è un’alta differenze a seconda delle aree territoriali.

Infine, in diverse regioni i tassi di positività sui tamponi diagnostici (un dato non calcolabile dai documenti pubblici di Protezione civile e Iss) sono abbastanza elevati e in aumento rispetto alla settimana precedente, segno di una maggiore circolazione del virus.