Negli ultimi mesi l’aumento del costo dell’elettricità e del gas ha riportato di attualità in Italia il dibattito sull’energia nucleare. Tra i partiti politici italiani c’è chi, come come la Lega e Forza Italia, sostiene che sia necessario pensare di tornare a investire sull’energia nucleare, magari in forme innovative, mentre altri vi si oppongono, come il Partito democratico e il Movimento 5 stelle.

Di recente, dopo alcune sue dichiarazioni ambigue sul tema, il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ha escluso il ritorno al cosiddetto “nucleare tradizionale” ma ha difeso la possibilità di adozione di nuove tecnologie, per lo più ancora in fase di studio o di sperimentazione, che potrebbero rendere questa fonte di energia più sicura e sostenibile.

Al di là delle questioni scientifiche, quali proposte sono state avanzate in Parlamento negli ultimi anni sul fronte nucleare? E quali sono oggi le posizioni dei singoli partiti? Per capire il contesto attuale, bisogna fare un salto indietro nel tempo di una decina di anni circa.

La confusione tra il 2008 e il 2011

Tra il 1963 e il 1990 in Italia sono state attive quattro centrali nucleari, progressivamente disattivate dopo il referendum abrogativo del 1987 e il disastro di Chernobyl, avvenuto in Unione sovietica l’anno precedente.

Il dibattito sul nucleare è tornato alla ribalta circa vent’anni dopo. A giugno 2008 un decreto-legge del quarto governo Berlusconi aveva infatti avviato la preparazione di una “Strategia energetica nazionale”, che tra le altre cose prevedeva la «realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare». In seguito erano state approvate altre norme per cercare di concretizzare questo obiettivo.

All’epoca i provvedimenti spinsero il partito Italia dei Valori a promuovere un’iniziativa referendaria, poi guidata dal comitato “Vota Sì per fermare il nucleare”, per abrogare le nuove norme e fermare il ritorno dell’energia nucleare nel nostro Paese. Pochi giorni prima del referendum, il 26 maggio 2011 il governo Berlusconi decise di fare una sorta di marcia indietro, sospendendo l’avanzamento dei progetti sul nucleare. Anche perché, nel marzo 2011, c’era stato il disastroso incidente nucleare di Fukushima, in Giappone, che aveva portato a profondi ripensamenti nell’impegno nucleare anche in Paesi con numerose centrali attive (come lo stesso Giappone).

Il referendum italiano si è comunque tenuto il 12-13 giugno 2011, con un quesito modificato dalla Corte di Cassazione e adattato al nuovo quadro normativo. Il fronte del “Sì”, favorevole all’eliminazione del nucleare, vinse con il 94 per cento dei voti. L’affluenza del 57 per cento aveva inoltre permesso di raggiungere il quorum e validare così i risultati.

Da quel momento in avanti i piani per un possibile ritorno all’energia nucleare si sono raffreddati per diversi anni.

L’attività in Parlamento

Tra il 2013 e il 2018 sono state presentate poche proposte di legge riferite in modo specifico all’energia nucleare, per di più tutte generalmente contrarie.

Nel 2013, per esempio, è stata ripresentata una proposta di legge d’iniziativa popolare, già avanzata tre anni prima, che prevedeva espressamente l’esclusione del nucleare per la produzione di energia nel nostro Paese. L’esame della proposta non è però mai stato avviato, così come quella avanzata nel 2016 da una senatrice per l’istituzione di una giornata commemorativa dedicata alle vittime dei disastri nucleari.

Nell’attuale legislatura, iniziata a marzo 2018, soltanto due iniziative hanno toccato il tema del nucleare. Con la prima, a luglio 2020, il secondo governo Conte ha proposto la ratifica, poi approvata dal Parlamento, di due protocolli europei in tema di nucleare che hanno modificato i sistemi di compensazione delle vittime, entrati in vigore il 1° gennaio 2022. Un secondo disegno di legge, avanzato nel 2019 dal senatore di Forza Italia Carlo Giacometto, vorrebbe invece allargare la platea di enti territoriali che avrebbero diritto a compensazioni date dalla presenza di impianti nucleari. La proposta attende ancora di essere esaminata dalle commissioni parlamentari competenti.

Anche i partiti attualmente favorevoli alla reintroduzione dell’energia nucleare, come la Lega, nei fatti non hanno ad oggi presentato proposte di legge in Parlamento in merito, limitandosi a fare soprattutto annunci.

Quali sono gli schieramenti tra i partiti

Oggi tutti i principali partiti italiani sono contrari al ritorno del cosiddetto “nucleare tradizionale”, ossia alla costruzione di centrali di impianto simile a quelle già utilizzate in passato. Alcuni esponenti politici, per lo più di centrodestra, si sono però detti favorevoli al cosiddetto “nucleare di quarta generazione”, nuovi reattori con un diverso utilizzo del combustibile che potrebbero essere, secondo i suoi sostenitori, più sicuri, ecosostenibili ed economici. Questa tipologia di reattori è attualmente in fase di studio e, in base alle previsioni più ottimistiche, non dovrebbe essere disponibile prima dei prossimi dieci anni.

Negli ultimi mesi si sono detti favorevoli alla ricerca su questo fronte, tra gli altri, il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani (che è un tecnico e non un politico di professione) e il leader della Lega Matteo Salvini. Il 1° gennaio Salvini si è anche detto pronto a «raccogliere le firme per un referendum che porti il nostro Paese in un futuro energetico indipendente, sicuro e pulito». Sulla stessa linea è Forza Italia, che il 7 gennaio ha presentato al governo un “Piano energia”, con all’interno il ricorso al «nucleare pulito».

Più sfumata sembra essere invece la posizione di Fratelli d’Italia, il principale partito d’opposizione al governo Draghi. Da quando è tornato di attualità il dibattito sul nucleare, la presidente Giorgia Meloni non ha infatti espresso commenti a riguardo. A inizio 2021 è però stato pubblicato uno studio sul tema, commissionato dal gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr), di cui fa parte anche Fratelli d’Italia, e il gruppo democratico-liberale Renew Europe che ha tratto conclusioni nettamente favorevoli all’energia nucleare.

Sull’altro lato dello spettro politico, il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha criticato la decisione della Commissione europea di inserire il nucleare nell’elenco di fonti energetiche che possono facilitare la transizione verso un futuro più ecosostenibile. È contrario a un possibile ritorno al nucleare anche il Movimento 5 stelle e il suo leader, Giuseppe Conte.

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato con fondi europei per far fronte alla crisi causata dalla Covid-19, l’energia nucleare non viene mai menzionata.

La questione del deposito nazionale per i rifiuti nucleari

Parallelamente al dibattito sul ritorno al nucleare, da anni è rimasta aperta un’altra questione, che periodicamente torna a far parlare di sé: quella relativa alla creazione di un unico e definitivo deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. Oggi i rifiuti presenti nel nostro Paese – risultanti sia dalle centrali attive in passato che da attività legate alla medicina, all’industria o alla ricerca – sono infatti custodite in decine di depositi temporanei, sparsi sul territorio nazionale, con diversi problemi dal punto di vista del monitoraggio e della sicurezza. In altri Paesi, come la Francia, esistono da alcuni decenni depositi unici nazionali in cui si raccolgono tutti o quasi i rifiuti provenienti dalle attività di produzione di energia e non solo.

La storia del deposito nazionale italiano, previsto anche dalle norme europee, è lunga e travagliata. Ha avuto un momento di rilancio decisivo nel 2010, quando l’allora governo Berlusconi, insieme al nuovo interesse per il nucleare di cui abbiamo già parlato (e che sarebbe naufragato con il referendum del 2011), ribadì per legge che si sarebbe dovuto costruire un unico “Deposito nazionale per i rifiuti radioattivi”, con un annesso “Parco Tecnologico”, un’area con strumenti e infrastrutture per la gestione di attività «connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi». Il progetto del deposito venne affidato al gruppo Sogin Spa, la società pubblica responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi.

Sul sito ufficiale del progetto si legge che, una volta selezionato il sito, il deposito sarà costruito in quattro anni (la scadenza per la costruzione è fissata entro il 2029) e darà lavoro a circa mille persone. L’investimento previsto è di 900 milioni di euro, finanziati con una parte delle bollette elettriche pagate dai cittadini. Sogin dovrà poi garantire l’isolamento dei rifiuti radioattivi dall’ambiente «per oltre 300 anni», ossia fino a quando non rappresenteranno più un pericolo per la salute degli esseri umani e dell’ambiente.

La tabella di marcia stabilita nel 2010 ha però subito parecchi ritardi e ad oggi non è ancora stato deciso il luogo in cui le due strutture sorgeranno. Qualcosa si è però mosso nell’ultimo anno. Dopo anni di attesa, ai primi di gennaio Sogin ha ottenuto dal governo il via libera a pubblicare la “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee” (Cnapi), una mappa di 67 località considerate idonee alla costruzione del deposito. Per individuare i siti sono state escluse le aree a elevato rischio sismico, vulcanico o idrogeologico, quelle in montagna, e quelle troppo vicine alla costa, ai centri abitati o ad altre infrastrutture strategiche come aeroporti o basi militari.

Con la pubblicazione della mappa si è aperta una fase di consultazione pubblica, che al momento non si è ancora conclusa. Dal Piemonte alla Sardegna, in alcuni comuni individuati come idonei per la costruzione del deposito si sono già tenute proteste, da parte dei cittadini e delle istituzioni locali. Nella speranza di Sogin, una volta spiegate le caratteristiche del progetto ci saranno manifestazioni di interesse ad ospitare il deposito da parte delle stesse autorità locali di alcune delle aree individuate dalla Cnapi.