Fact-checking: la conferenza stampa di Draghi, Speranza e Bianchi

Ansa
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Il 10 gennaio il presidente del Consiglio Mario Draghi ha tenuto una conferenza stampa sugli ultimi provvedimenti presi dal governo per contenere l’aumento dei contagi di coronavirus. All’incontro con i giornalisti hanno partecipato anche il ministro della Salute Roberto Speranza, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico (Cts), organo che consiglia il governo sulla gestione dell’epidemia.

Dalla scuola ai ricoveri dei non vaccinati contro la Covid-19, abbiamo verificato sette dichiarazioni dei tre membri del governo. Alcuni fatti sono stati riportati correttamente, altri meno.

Il confronto sull’obbligo vaccinale

«Siamo stati tra i primi ad adottare l’obbligo vaccinale per tutta una serie di categorie professionali, dai sanitari alle forze di sicurezza, poi agli insegnanti, ora anche agli insegnanti universitari»

Draghi ha ragione: l’Italia è stata i primi Paesi europei a introdurre l’obbligo vaccinale contro la Covid-19 per determinate categorie lavorative. E ora è entrata anche tra i primi Paesi europei ad aver esteso l’obbligo a un’intera fascia della popolazione, quella dai 50 anni in su.

Ad aprile 2021 il nostro Paese è stato il primo nell’Unione europea a obbligare il personale sanitario a vaccinarsi. Ad agosto, nell’Ue l’Italia era inoltre tra i Paesi con le restrizioni più severe per la ripresa della scuola, con l’introduzione dell’obbligo del green pass (che si otteneva con la vaccinazione, la guarigione dalla malattia e un test negativo) per tutto il personale scolastico e universitario. Con un decreto di fine novembre l’obbligo vaccinale è stato poi esteso a docenti, forze dell’ordine e personale delle strutture assistenziali. Con l’ultimo decreto del governo, approvato lo scorso 5 gennaio, l’obbligo varrà anche per il personale universitario.

Più di recente l’Italia ha introdotto l’obbligo vaccinale per tutta la popolazione dai 50 anni di età in su, terzo Paese europeo insieme ad Austria (dove l’obbligo scatterà a febbraio per chi ha più di 14 anni) e Grecia (dove l’obbligo inizierà dal 16 gennaio per gli over 60).

Quanti vaccinati ci sono nelle terapie intensive

«Le terapie intensive sono occupate per due terzi dai non vaccinati, e anche le ospedalizzazioni vedono le stesse percentuali»

Il dato citato da Draghi sulle terapie intensive è corretto, mentre quello sulle ospedalizzazioni è impreciso.

Secondo i dati più aggiornati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), tra il 19 novembre e il 19 dicembre 2021 (dunque circa un mese fa) ci sono stati 1.847 ricoverati per Covid-19 nelle terapie intensive. Circa il 65 per cento (1.202 ricoverati) ha riguardato persone non vaccinate, mentre il 27 per cento circa (496) persone che avevano ricevuto la seconda dose di vaccino da più di 120 giorni dopo l’infezione. Il 3,9 per cento (72) ha riguardato persone che avevano ricevuto la seconda dose nei 120 giorni precedenti, il 2,5 per cento (46) persone che avevano ricevuto la terza dose e l’1,6 per cento (31) persone soltanto con una dose di vaccino.

Ricordiamo che nelle statistiche dell’Iss tra i “non vaccinati” rientra chi al momento dell’infezione non ha ricevuto nessuna dose di vaccino o chi ha ricevuto la prima dose nei 14 giorni precedenti (il periodo di tempo necessario a sviluppare la protezione immunitaria).

Le percentuali sui non vaccinati non sono invece le «stesse» per le ospedalizzazioni, come detto da Draghi in conferenza stampa. Nel periodo visto sopra, le ospedalizzazioni hanno riguardato 16.751 contagiati. Il 49,4 per cento (8.278 ricoverati) ha riguardato persone non vaccinate, una percentuale più bassa (citata correttamente da Speranza) di quella delle terapie intensive.

Come vedremo meglio tra poco, queste percentuali non dimostrano però che non vaccinati e vaccinati hanno la stessa probabilità di finire in ospedale.

Gli effetti della didattica a distanza

«La Dad provoca delle disuguaglianze destinate a restare»

Quantificare gli effetti della didattica a distanza (Dad) sulle disuguaglianze scolastiche è un lavoro molto complicato. In un approfondimento di luglio 2021 abbiamo spiegato, consultando alcuni esperti della materia, come la Dad possa avere determinato il peggioramento di disuguaglianze, che però erano preesistenti in determinati contesti sociali. In altri casi la Dad può invece aver aiutato a contenere i danni causati dalla pandemia.

Per maggiori approfondimenti, rimandiamo al nostro pezzo, consultabile qui.

I dati sulle assenze a scuola

«I docenti che hanno deciso di non vaccinarsi ad oggi rappresentano lo 0,72 per cento […]. Ad oggi gli assenti perché positivi o in quarantena sono, tra i docenti, rispettivamente il 3,6 per cento e il 2,4 per cento […]. Fra gli studenti siamo: positivi al 2,2 per cento e in quarantena al 2,3 per cento»

In conferenza stampa il ministro Bianchi ha elencato queste percentuali, che però sembrano fare riferimento a dati non pubblicamente disponibili (da tempo il governo, nel suo report settimanale, non fornisce più i dati sulle vaccinazioni divisi per categorie professionali). Abbiamo contattato l’ufficio stampa del Ministero dell’Istruzione per avere chiarimenti sull’origine di queste statistiche, ma siamo ancora in attesa di una risposta.

Secondo quanto riportato l’11 gennaio da Il Fatto Quotidiano, i dati sulle assenze tra insegnanti e studenti provengono da un sondaggio del ministero, effettuato il 10 gennaio, a cui ha partecipato «solo il 63 per cento delle scuole». In base alle rilevazioni più recenti dell’Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola (che rappresenta i presidi), le assenze tra insegnanti e studenti si aggirerrebero in realtà intorno al 10 per cento.

Già in passato abbiamo denunciato la scarsa trasparenza del ministero sulla raccolta dei dati epidemiologici nelle scuole. A dicembre scorso Wired ha evidenziato come lo stesso ministero abbia avuto posizioni contraddittorie sull’esistenza o meno di dati affidabili sul numero di studenti e insegnanti contagiati.

L’infografica di Speranza

«Tra i non vaccinati ci sono 23,2 persone su 100 mila abitanti che vanno in terapia intensiva»

Durante la conferenza stampa il ministro Speranza ha mostrato un’infografica dell’Iss, a detta sua «più forte di tante parole» per dimostrare l’efficacia dei vaccini nel prevenire i ricoveri in terapia intensiva (Immagine 1). L’infografica è stata pubblicata l’8 gennaio sui social anche dall’Iss.
Immagine 1. L’infografica dell’Iss mostrata da Speranza in conferenza stampa
Immagine 1. L’infografica dell’Iss mostrata da Speranza in conferenza stampa
Secondo i dati dell’Iss, nel periodo tra il 12 novembre e il 12 dicembre (dunque un mese fa), su una popolazione di 100 mila persone non vaccinate, 23,1 sono finite in terapia intensiva, un’incidenza più alta dell’1,5 ogni 100 mila abitanti registrato tra i vaccinati che hanno ricevuto la seconda dose da più di 120 giorni, dello 0,9 ogni 100 mila abitanti registrato tra chi ha ricevuto la terza dose e dell’1 ogni 100 mila abitanti registrato tra chi ha concluso il ciclo vaccinale da meno di 120 giorni. Tra l’altro, queste sono delle medie: ogni 100 mila persone non vaccinate tra i 60 e i 79 anni di età, il numero dei ricoverati in intensiva sale a un’incidenza di 56,6 ogni 100 mila abitanti.

Nel complesso, secondo l’Iss, nel periodo analizzato una persona non vaccinata, una volta contagiata, ha avuto un rischio di finire in terapia intensiva 15,4 volte più alto di una persona che ha ricevuto la seconda dose da oltre 120 giorni, 25,7 volte più alto di una persona che ha ricevuto la terza dose e 23,1 volte più alto di una persona che ha ricevuto la seconda entro 120 giorni.

L’infografica mostrata da Speranza ha comunque un problema, come ha sottolineato su Twitter, tra gli altri, Marco Cortella, esperto di visualizzazione dei dati. La grandezza degli omini colorati non rispetta le proporzioni dei numeri sottostanti.

Quanta didattica a distanza ha fatto l’Italia

«Da noi in media ci sono stati nel 2020 65 giorni di scuola regolare persa a causa della Covid-19, rispetto a una media dei Paesi più ricchi del mondo di 27 giorni»

Draghi non ha indicato quale sia la fonte di questi dati, che molto probabilmente provengono da un rapporto pubblicato a febbraio 2021 dall’Unicef, il fondo della Nazioni unite per l’infanzia.

«I bambini, i ragazzi e le loro famiglie hanno vissuto in quasi totale isolamento per circa due mesi fino al 3 maggio 2020 e le scuole sono rimaste chiuse fino a settembre», si legge nel rapporto. «Escludendo le interruzioni scolastiche programmate, gli studenti italiani hanno perso 65 giorni di scuola regolare a causa delle misure di isolamento adottate per fronteggiare il Covid-19, rispetto a una media di 27 giorni persi tra i Paesi ad alto reddito in tutto il mondo».

Le due statistiche di “65 giorni” e “27 giorni” provengono a loro volta da due fonti diverse, come spiegato nelle note a piè di pagina dal rapporto Unicef.

Il primo dato – quello sui 65 giorni – proviene dalla dashboard dell’Unesco (l’agenzia delle Nazioni unite per l’educazione e la cultura), che dal 2020 mette in fila la durata delle chiusure, parziali o totali, delle attività scolastiche nei Paesi del mondo. Non è possibile recuperare le rilevazioni aggiornate a novembre 2020, data in cui la dashboard è stata consultata per redigere il rapporto citato da Draghi. Ma secondo i dati Unesco più aggiornati, facendo una media tra i vari gradi di istruzione, dall’inizio della pandemia ad oggi l’Italia ha tenuto le scuole “chiuse” per 38 settimane, un dato uguale a quello della Germania, ma più alto degli altri tre grandi Paesi europei: Francia (12 settimane), Spagna (15) e Regno Unito (27).

Il secondo dato – quello sui 27 giorni – proviene invece da una ricerca pubblicata a ottobre 2020 da Unesco, Unicef e dalla Banca mondiale. Le tre organizzazioni hanno condotto un sondaggio per quantificare il numero di giorni in cui le scuole sono rimaste chiuse nel mondo, ricevendo risposte da 108 Paesi. Nei Paesi ad alto reddito, dallo scoppio della pandemia all’inizio dell’anno scolastico 2020-2021, le scuole sono rimaste “chiuse” in media 27 giorni. Nei Paesi a reddito più basso 62.

I soldi per i test gratis agli studenti

«Noi abbiamo dato 92 milioni e 104 mila euro al commissario Figliuolo per poter effettuare a titolo gratuito tamponi a tutta la scuola secondaria»

Qui il ministro Bianchi ha fatto riferimento a una misura contenuta nel decreto-legge, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 7 gennaio, che ha modificato le regole per la gestione dei contagiati e dei contatti stretti dei positivi nelle scuole. Le nuove norme cambiano a seconda del numero di positivi e dallo stato vaccinale degli studenti.

Tra le altre cose, il decreto ha stabilito (art. 4) che nelle scuole medie e superiori gli studenti nelle classi con un solo contagiato possono continuare la didattica in presenza, con l’utilizzo di mascherine Ffp2, il monitoraggio dei sintomi ed eventualmente il test per verificare l’avvenuto contagio (la cosiddetta “autosorveglianza”). Nelle classi con due contagiati la presenza è garantita soltanto ai vaccinati o ai guariti dalla malattia. Con tre contagiati, per l’intera classe scatta la didattica a distanza, della durata di dieci giorni.

Il decreto ha autorizzato (art. 5) la struttura commissariale per l’emergenza coronavirus, guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo, a spendere circa 92,5 milioni di euro per consentire agli studenti di medie e superiori di sottoporsi a test gratuiti in farmacia, con la prescrizione del medico di base.

Queste risorse, citate da Bianchi, non sono però nuove: come spiega lo stesso decreto, sono «a valere sulle risorse disponibili a legislazione vigente». Il 9 gennaio, ospite a Mezz’ora in più su Rai 3, Figliuolo ha confermato (min. 0:30) che con questa disposizione «è stata data alla struttura commissariale la possibilità di utilizzare fondi che già avevamo sul conto della struttura».

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