In Italia si sta discutendo della possibilità di introdurre, sulla scorta del modello francese, l’obbligo di esibire la certificazione verde per la Covid-19 per accedere a musei, stadi, trasporti e forse anche ristoranti. Questa ipotesi ha fatto tornare di moda il tema delle cure domiciliari, soprattutto tra i contrari di questa proposta.

L’idea di potersi curare in casa fin dalle fasi iniziali della malattia, senza dover quindi ricorrere a ricoveri ospedalieri, è infatti avanzata da diversi politici, come l’ex sottosegretario della Lega Armando Siri, come alternativa solida e addirittura più sicura rispetto ai vaccini. Un esempio lampante è quanto successo in una serie di piccoli comuni in provincia di Alessandria (Piemonte), dove la scorsa settimana sono stati affissi manifesti che criticano i vaccini sostenendo che dalla Covid-19 «si guarisce con la terapia domiciliare precoce». Le autorità di alcuni dei comuni interessati si sono dissociate dall’iniziativa.

In generale continua a circolare la convinzione che i vaccini non siano necessari poiché non assicurano l’impossibilità di contrarre l’infezione (ma la riducono fortemente, come abbiamo spiegato varie volte) e che, comunque, anche in caso di contagio, sia possibile guarire rapidamente se si applicano subito determinate terapie.

Chiariamo che le cose non stanno così: per quanto potenzialmente efficace per i pazienti più lievi, il protocollo ufficiale per le cure domiciliari promosso dal Ministero della Salute, basato sulla strategia della «vigile attesa» e del monitoraggio dei sintomi, non esclude la possibilità di dover comunque ricorrere al ricovero ospedaliero se il quadro clinico dovesse peggiorare.

A complicare le cose si aggiunge il fatto che nel corso dell’emergenza, accanto alle linee guida ufficiali, si sono sviluppate terapie domiciliari alternative, promosse comunque da medici ed esperti e molto apprezzate dai critici del governo, ma che prevedono anche l’uso di farmaci sconsigliati dalle autorità.

Che cosa prevedono le linee guida ministeriali

Il 26 aprile 2021 il Ministero della Salute ha diffuso le nuove linee guida per le cure domiciliari della Covid-19, che aggiornano le precedenti indicazioni rilasciate a novembre 2020. Queste si riferiscono a pazienti con sintomi lievi come, tra gli altri, febbre, malessere, tosse, perdita del gusto e dell’olfatto.

La strategia di base rimane quella della «vigile attesa», ossia il monitoraggio continuo del paziente e delle sue condizioni cliniche, cje prevede eventualmente l’utilizzo di normali farmaci antinfiammatori «in caso di febbre o dolori articolari o muscolari».

Tra le altre cose, il Ministero della Salute specifica chiaramente di non utilizzare eparina (almeno nelle fasi iniziali) e nemmeno idrossiclorochina, «la cui efficacia non è stata confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti».

In generale le misure proposte sono poco invasive e di carattere generico: evitare la disidratazione, promuovere se possibile lo svolgimento di attività fisica, dormire in posizione prona e così via. Se le condizioni del paziente peggiorano resta necessario il ricorso a cure ospedaliere.

Le alternative, dall’idrossiclorochina agli interventi precoci

Fin dall’inizio della pandemia diversi medici hanno proposto protocolli alternativi rispetto a quelli approvati dalle autorità per curare la Covid-19 in casa e, spesso, è a questi che fanno riferimento i promotori delle “cure domiciliari”. Alcuni di questi protocolli sono piuttosto dubbi e rischiosi, mentre altri potrebbero invece rivelarsi validi, ma al momento non sono comunque stati approvati dalle autorità sanitarie.

Vediamo più nel dettaglio di che cosa stiamo parlando.

Il Comitato cure domiciliari

Partiamo dalle terapie alternative più controverse. Queste sono state proposte dal Comitato cure domiciliari, un gruppo di medici e dottori italiani fondato tra marzo e aprile 2020 dall’avvocato Erich Grimaldi.

La tesi principale promossa dal gruppo sostiene che l’uso domestico di vari farmaci – dalla contestata idrossiclorochina alla vitamina D – darebbe risultati notevoli e permetterebbe di curare in casa la Covid-19. A marzo scorso i nostri colleghi di Facta hanno pubblicato un approfondimento su questo tema, che indaga nel dettaglio la metodologia messa a punto dal Comitato.

Al momento lo «schema terapeutico di cura domiciliare» adottato dal gruppo non è disponibile pubblicamente, una decisione presa per evitare che le persone possano adottare versioni “fai da te” del protocollo, potenzialmente dannose.

Andrea Mangiagalli, uno dei responsabili scientifici del Comitato, ha spiegato a Facta che, a grandi linee, lo schema utilizzato si basa sulla somministrazione di un mix di farmaci a pazienti over-50 non appena si verificano i primi sintomi di un potenziale contagio da Covid-19. Questo protocollo differisce dalle linee guida ufficiali diffuse dal Ministero della Salute – che come detto si basano invece sulla «vigile attesa» – e promuove anche l’uso di farmaci controversi come l’idrossiclorochina.

In generale, è difficile giudicare complessivamente lo schema adottato dal Comitato cure domiciliari: se l’efficacia contro la Covid-19 di alcuni dei farmaci proposti, come l’eparina o i cortisononici, è ormai assodata, altri risultano molto più discussi, quando non chiaramente sconsigliati dalle autorità.

Il Comitato è attivo ancora oggi e organizza eventi pubblici per promuovere il protocollo di cura domiciliare che ha messo a punto, usando toni anche molto critici (min. 5:45) nei confronti delle linee guida ufficiali approvate dal Ministero della Salute e dell’operato del ministro Roberto Speranza (Leu).

Le idee del Comitato cure domiciliari hanno trovato spazio anche nella comunicazione di leader politici di primo piano. Il 6 maggio, per esempio, la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha condiviso sulla sua pagina Facebook un servizio mandato in onda dal programma Zona Bianca su Rete 4, dedicato proprio alle proposte del Comitato. «Quante morti si sarebbero potute evitare con un approccio diverso alla cura in fase precoce?», si è chiesta Meloni nel suo post.

Esistono poi delle vie di mezzo, anche queste da prendere con molta cautela, tra le proposte avanzate dal Comitato cure domiciliari e le linee guida ministeriali.

Cure tempestive: uno studio alternativo

Nel corso degli ultimi mesi ha trovato spazio su diversi quotidiani uno studio, curato da medici italiani, che propone un altro protocollo di cure domiciliari alternative a quelle ufficiali. Come vedremo, questo studio non promuove l’uso di farmaci sconsigliati dalle autorità, ma a differenza delle linee guida ministeriali prevede che le terapie comincino non appena compaiono i primi sintomi di un possibile contagio da Covid-19.

Lo studio è stato pubblicato il 9 giugno 2021 sulla rivista online EClinical Medicine, associata alla più nota testata britannica The Lancet, ed è firmato da un team di 14 medici italiani guidati da Fredy Suter, primario all’Ospedale Papa Giovanni XIII di Bergamo, e Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.

La ricerca si basa su due gruppi di 90 pazienti risultati positivi al coronavirus e affetti da sintomi lievi. Di questi, un primo gruppo è stato curato in casa secondo il protocollo di cura domiciliare messo a punto Suter e Remuzzi, mentre l’altro gruppo, di “controllo”, ha ricevuto terapie diverse e coerenti con il protocollo della «vigile attesa» promosso dal governo (come chiarito da Remuzzi in un’intervista con l’Huffington Post).

La proposta dei due esperti è basata sulla prevenzione e sull’intervento precoce, con un mix di farmaci soprattutto antinfiammatori, da somministrare fin dalla prima comparsa di sintomi che potrebbero indicare un contagio (e quindi anche prima di averne conferma tramite tampone). Ribadiamo che le terapie in questione prevedono l’utilizzo di farmaci già comprovati contro la Covid-19 e non, come per il Comitato Cure Domiciliari, di trattamenti sconsigliati come l’idrossiclorochina, ma allo stesso tempo consigliano un’azione più tempestiva rispetto al protocollo ministeriale.

Gli autori dello studio affermano che la loro terapia ha permesso di ridurre del 90 per cento «il numero complessivo di giorni di ricovero e i relativi costi di trattamento».

Inoltre, soltanto due dei 90 pazienti curati con il metodo proposto da Remuzzi e Suter sono stati ospedalizzati, contro 13 pazienti del gruppo di controllo. I ricercatori hanno concluso che «il trattamento precoce della Covid-19 a livello domiciliare da parte dei medici di famiglia secondo il metodo proposto previene quasi completamente le ammissioni ospedaliere».

In ogni caso, come precisato più volte da Suter e Remuzzi, lo studio rimane «puramente accademico e osservazionale». Come spiegato da Facta, questo tipo di studi sono spesso viziati da fattori confondenti, cioè «circostanze indipendenti dal farmaco che possono cambiare la risposta tra chi prende il farmaco e chi no» e vanno quindi presi con cautela, in attesa di studi clinici più rigorosi.

Gli autori stessi, d’altra parte, chiariscono in modo trasparente i limiti della loro ricerca affermando che prima di trarre conclusioni definitive – e quindi eventualmente di attivare il protocollo su larga scala – sarebbe certamente necessario svolgere ulteriori ricerche.

Dopo aver chiarito la metodologia d’intervento promossa dal Ministero della Salute e le principali obiezioni e alternative, vediamo come funziona realmente la gestione delle cure domiciliari contro la Covid-19 secondo le procedure attualmente approvate dalle istituzioni.

In pratica, come funziona?

Nelle primissime fasi della pandemia l’allora governo Conte II ha affidato (articolo 8 del decreto-legge n. 14 del 9 marzo 2020) l’assistenza domiciliare per i malati di Covid-19 alle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), organismi creati ad hoc proprio per fornire assistenza ai malati lievi, riducendo il carico di lavoro dei medici di base e la pressione sugli ospedali. Le Usca sono formate da medici, anche neolaureati, e devono essere operative sette giorni su sette in modo continuativo dalle 8 alle 20.

Nella pratica, le Usca ricevono segnalazioni da parte dei medici di base in caso di potenziali pazienti Covid. A quel punto le unità visitano il paziente a domicilio ed effettuano un tampone: se è negativo, il caso torna a essere gestito dal medico di base, mentre se risulta positivo l’Usca si occuperà di monitorare le condizioni del contagiato fino alla sua completa guarigione, e di disporre se necessario il ricovero in ospedale o l’avvio di altre terapie specifiche.

Il decreto stabiliva che dovesse essere attivata una unità assistenziale ogni 50 mila abitanti, per un totale previsto di circa 1.200 Usca in tutta Italia. Non ci sono database ufficiali riguardo a quante Usca siano attive al momento o siano mai state attivate dalle Regioni. Fonti di stampa riportano però che, se durante tutta la prima ondata e l’estate 2020 le Usca sono state molte meno della soglia minima, il loro numero è cresciuto a partire ottobre e ha raggiunto le 1.312 unità attive – quindi anche più di quelle prestabilite dal governo – a novembre 2020.

Le Regioni presentavano differenze anche notevoli riguardo al numero di Usca attivate, e ancora oggi la situazione è molto eterogenea. Per fare qualche esempio, a Pavia sono attive sette unità assistenziali composte da un totale di 17 medici, mentre a febbraio 2021 (ultime informazioni disponibili) queste erano 12 a Bergamo e 26 in tutto l’Abruzzo. Nell’area di Prato (Toscana) dal 7 aprile 2020 a al 14 luglio 2021 i medici delle Usca locali hanno effettuato 12.900 visite domiciliari.

Secondo diverse fonti di stampa, comunque, le Usca faticano a raggiungere tutti i cittadini che avrebbero bisogno dei loro servizi.

Inoltre, nel corso della pandemia alcune Regioni hanno attivato protocolli propri e a volte anche in contraddizione con le linee guida ufficiali. È per esempio il caso del Piemonte, che il 6 marzo 2021 ha approvato l’uso dell’idrossiclorochina nonostante questa fosse già stata sconsigliata dal Ministero della Salute.

In conclusione

Nel corso della pandemia si è parlato spesso della possibilità – e in alcuni casi necessità – di curare in casa i pazienti affetti da Covid-19 che presentano sintomi lievi, in modo anche da alleggerire la pressione sugli ospedali.

A fine aprile 2021 il Ministero della Salute ha rilasciato linee guida aggiornate riguardo al protocollo da seguire per curare i pazienti a domicilio. Questo si basa sulla «vigile attesa» e sul monitoraggio continuo dei sintomi, con eventualmente la somministrazione di farmaci antinfiammatori. In mancanza di studi clinici che ne accertino l’efficacia viene vietato invece l’uso di specifiche sostanze, tra cui anche la controversa idrossiclorochina.

Il protocollo promosso dal Ministero della Salute ha ricevuto critiche da parte di esponenti politici, soprattutto del centrodestra, e anche di diversi medici che lo considerano troppo blando e non abbastanza tempestivo. Vari esperti hanno quindi avanzato proposte alternative, alcune potenzialmente efficaci e altre molto più controverse.

Già a marzo 2020 per esempio è nato il Comitato cure domiciliari, formato da un gruppo di medici e volontari che promuovono terapie piuttosto invasive e soprattutto l’uso di farmaci sconsigliati dalle linee guida ufficiali, come l’idrossicolorichina.

A giugno 2021 invece è stato pubblicato uno studio, guidato da un team di medici italiani, secondo cui un protocollo diverso – ma basato comunque su farmaci attualmente approvati – e più immediato di cure domiciliari potrebbe ridurre del «90 per cento» il numero complessivo dei giorni di ospedalizzazione per i pazienti con sintomi lievi.

Ricordiamo che al momento entrambe queste due metodologie alternative non sono state approvate dalle autorità.

Per quanto riguarda il funzionamento pratico delle cure domiciliari – o almeno di quelle ufficiali e approvate dal Ministero della Salute – dal marzo 2020 la loro gestione è delegata alle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), gruppi di medici nati con la pandemia proprio per aiutare i pazienti che vengono curati in casa e monitorare la loro situazione, intervenendo se necessario secondo i protocolli ufficiali.