Il 5 agosto, il Senato ha approvato in via definitiva la conversione in legge del decreto n. 53 del 14 giugno 2019, noto con il nome di “decreto Sicurezza bis”.

I 18 articoli di questo testo sono intitolati «disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica» e intervengono, tra le altre cose, sulla regolamentazione del soccorso in mare dei migranti.

Diversi media hanno presentato la legge sottolineando l’introduzione di maggiori poteri per il ministro dell’Interno nel decidere il divieto di ingresso di navi in acque territoriali italiane.

La nuova norma arriva dopo mesi in cui si sono verificati casi in cui il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha più volte negato lo sbarco dei passeggeri a bordo di navi delle Ong (come avvenuto tra giugno e luglio 2019 per la Sea-Watch 3) o militari (si pensi al recente caso della Gregoretti).

Tra le altre cose, una parte molto criticata della nuova legge riguarda l’introduzione di sanzioni per i comandanti delle navi che non rispettano il divieto di ingresso in acque territoriali: da 150 mila a un milione di euro di multa e la confisca dell’imbarcazione.

Ma che cosa è cambiato davvero per la questione sbarchi con il “decreto sicurezza bis”? Più in generale, si può vietare uno sbarco? Se sì, chi può deciderlo?

Iniziamo da queste ultime due domande.

“Ingresso” e “sbarco” sono due cose diverse

Un aspetto su cui si fa spesso confusione è la distinzione tra “ingresso” nelle acque territoriali italiane e “sbarco” in un porto italiano. I principi giuridici che regolano questi due aspetti sono infatti diversi tra loro.

«L’ingresso nelle acque territoriali può essere preordinato allo sbarco, ma non lo è necessariamente: si può passare per le acque territoriali per andare verso un’altra destinazione, e non per sbarcare in un porto», ha spiegato a Pagella Politica Fabio Caffio, ammiraglio della marina in congedo ed esperto di diritto marittimo. «Questo è il cosiddetto “transito inoffensivo”, che comporta il passaggio attraverso le acque territoriali ma non per entrare in un porto».

Il concetto di “transito (o passaggio) inoffensivo” è regolamentato dalla Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982 (art. 17 e successivi).

La convenzione dice che «le navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale», dove con “inoffensivo” si intende un passaggio che «non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero».

Come elencato dall’articolo 19 della convenzione, esistono delle condizioni che possono rendere questo transito offensivo, e quindi vietabile. Tra queste (comma 2, lettera g), c’è «il carico o lo scarico di […] persone in violazione delle leggi […] di immigrazione vigenti nello Stato costiero».

In sostanza, sulla base della convenzione di Montego Bay, a una nave che trasporta migranti in posizione irregolare può essere impedito il passaggio nelle acque territoriali italiane.

«Lo sbarco è una cosa diversa dal passaggio: e la Convenzione in questione non parla di sbarchi, ma di quello che avviene prima e rende possibile uno sbarco, ossia il passaggio in acque territoriali», ha ribadito a Pagella Politica Irini Papanicolopulu, professoressa di diritto internazionale all’Università Bicocca di Milano ed esperta in diritto del mare.

Discorso diverso infatti vale per le acque dei porti, e di conseguenza per le questioni legali che regolano gli sbarchi.

«I porti si trovano in “acque interne”, come i fiumi e i laghi», ha spiegato Caffio. «Lo status legale di queste acque è caratterizzato dal completo e incondizionato esercizio della sovranità dello Stato costiero, al pari di quanto avviene nell’ambito dei suoi confini terrestri».

Nel passato recente, si sono verificati casi in cui la distinzione tra “ingresso” nelle acque territoriali e “sbarco” in un porto si è fatta chiara. A gennaio 2019, per esempio, alla nave Ong Sea-Watch 3 era stato concesso l’ingresso in acque territoriali, ma negato per alcuni giorni lo sbarco.

Il “diritto del mare” non basta

Per rispondere alla domanda “Si può impedire uno sbarco e chi lo decide?” non basta dunque vedere che cosa dice il diritto internazionale del mare, e in particolare la Convenzione di Montego Bay, ma bisogna fare riferimento anche alle legislazioni dei singoli Paesi.

Questo è dovuto anche al fatto che, nonostante le convenzioni internazionali costituiscano un limite alla potestà legislativa dello Stato, esse fissano solo dei principi generali, non disciplinano ogni singolo caso specifico. Insomma, funzionano un po’ come la Costituzione rispetto alle leggi ordinarie.

Capire che cosa dicono esattamente le convenzioni internazionali è poi una «questione di interpretazione», ha spiegato Papanicolopolu.

Le convenzioni internazionali in ogni caso parlano di ciò che avviene in mare, lasciando una libertà maggiore ai singoli Stati di stabilire che cosa può avvenire nei singoli porti con leggi nazionali. Questa libertà non è però assoluta: in particolare per quanto riguarda gli sbarchi, la sovranità dello Stato incontra il limite di altre norme internazionali, ad esempio sulla tutela dei rifugiati.

Come si traduce in concreto quanto appena visto nei casi specifici di navi Ong o militari? Considerato il ruolo che ha la legislazione nazionale, come abbiamo visto, in materia di sbarchi, per prima cosa andiamo a vedere cos’è cambiato in Italia con l’approvazione del “decreto sicurezza bis”.

Che cosa dice la nuova legge

Al 6 agosto, il testo finale della conversione in legge del decreto non è ancora disponibile, ma il Senato lo ha approvato senza emendamenti né articoli aggiuntivi rispetto al testo approvato dalla Camera il 25 luglio scorso e dunque possiamo fare riferimento a quel testo.

L’articolo 1 del decreto inserisce all’interno dell’articolo 11 del “Testo unico sull’immigrazione” (un decreto legislativo del 1998, pietra angolare legale del sistema di immigrazione italiano) un nuovo comma. In esso si stabilisce che il ministro dell’Interno «può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale» sulla base di eventuali violazioni delle leggi in tema di immigrazione stabilite dalla Convenzione di Montego Bay (come abbiamo visto prima, art. 19, co. 2, lett. g).

Il provvedimento del Viminale per impedire l’ingresso nelle acque italiane «è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri».

Come spiega un approfondimento sul decreto della rivista di settore Diritto penale contemporaneo, prima delle modifiche del “decreto sicurezza bis” il Testo unico sull’immigrazione non faceva nessun riferimento alla possibilità, da parte del Ministero dell’Interno, di vietare il passaggio di navi.

Questo tipo di politica però (comunemente nota con lo slogan “politica dei porti chiusi”) è stata comunque portata avanti da Salvini negli scorsi mesi, per così dire, in via informale: prima con una direttiva di carattere più generale (marzo 2019) e poi con una serie di singole direttive su casi specifici di Ong (aprile 2019 e maggio 2019).

«Secondo il punto di vista del diritto internazionale del mare, da un lato il decreto dice delle cose abbastanze scontate: già prima era stabilito che uno Stato costiero potesse impedire il passaggio offensivo di una nave», ha spiegato Papanicolopulu.

«Dall’altro lato, a partire dalle dichiarazioni di Salvini e di altri esponenti del governo, sembra che l’intento sia quello di rendere ancora più esplicito la volontà di impedire alle navi che hanno soccorso persone di entrare nei porti italiani. E questo potrebbe essere illegale sulla base di altre convenzioni internazionali».

Quest’ultime, come analizzeremo meglio più avanti, sono quelle sul soccorso in mare (Convenzione dei Amburgo del 1979) e sui richiedenti asilo (Convenzione di Ginevra del 1951).

La questione “sbarchi”

Alla luce di quanto detto, vediamo che cosa può succedere caso per caso.

Nave straniera

«Il traffico offensivo riguarda solo le navi straniere, quindi una nave straniera ha diritto a passare nelle acque territoriali a condizione che non attenti alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero», ha ribadito Caffio. «Se il passaggio è inoffensivo, il successivo ingresso in un porto è legato a una pratica commerciale oppure, nel caso particolare di navi che trasportano migranti, deve sempre essere preceduto dall’assenso dello Stato costiero».

Questo principio poggia su convenzioni internazionali precedenti anche a quella di Montego Bay. Come ha chiarito in un articolo di luglio 2019 su Affari Internazionali Natalino Ronzutti – professore emerito di diritto internazionale alla Luiss Guido Carli – la Convenzione sul regime internazionale dei porti (1927) stabilisce che «l’accesso ricade sotto la discrezionalità dello Stato costiero».

«In generale, la quotidiana gestione degli ingressi nei porti è regolata dall’autorità portuale competente», ha spiegato Caffio.

Da un punto di vista del diritto internazionale, come abbiamo visto, a una nave straniera può essere vietato il passaggio in acque italiane, e di conseguenza lo sbarco in un porto, per motivi di sicurezza e ordine pubblico, quando per esempio a bordo ci sono persone il cui ingresso in Italia violerebbe le norme in tema di immigrazione.

Con il “decreto sicurezza bis”, questo potere è stato esplicitato nelle leggi italiane, ed è di competenza del ministro dell’Interno, insieme con quello delle Infrastrutture e della Difesa.

Anche prima di questo decreto – oltre alla possibilità da parte del ministero dell’Interno di emanare direttive per i singoli casi – c’era un articolo del Codice della navigazione (art. 83) che stabiliva che il ministro dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale per motivi di sicurezza e ordine pubblico.

Nave italiana

Discorso un po’ diverso vale per le navi italiane.

«Se la nave ha bandiera italiana, non le si può negare di passare nelle acque territoriali», ha precisato Caffio. «Anche qui però la nave non può essere impegnata in attività contro l’ordine e la sicurezza pubblica, altrimenti anche in questo caso può scattare il divieto nazionale. Mentre nei confronti degli stranieri si applica in particolare la convenzione internazionale, recepita nel “decreto sicurezza bis”, per gli italiani si applicano anche le leggi precedenti sulla sicurezza pubblica, come la Bossi-Fini e la Turco-Napolitano».

In generale, le navi italiane sono libere di entrare nei porti italiani, rispettando però tutte le procedure amministrative e gli ordini della capitaneria di porto. Se questo non avviene, le autorità hanno il potere, in determinate circostanze, di impedire gli sbarchi delle persone a bordo.

Nave militare

Per quanto riguarda le navi militari, il “decreto sicurezza bis” le esclude dal suo raggio di azione («salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale»).

«Le navi militari italiane, in situazioni normali, non hanno bisogno di nessuna autorizzazione per accedere a un porto e sbarcare», ha spiegato Caffio. Avere a bordo decine di migranti soccorsi in mare, non è però una situazione normale e quindi le cose cambiano.

«Quello che è successo con le navi Diciotti e Gregoretti – prosegue Caffio – è che l’ingresso nel porto comportava una prospettiva di sbarco, e dunque la possibilità che i migranti potessero chiedere asilo in Italia. Salire a bordo di una nave militare non garantisce automaticamente la possibilità dei soccorsi di fare domanda di protezione internazionale».

Per fare questo bisogna, dunque, sbarcare a terra, e questo in teoria può essere impedito dalle autorità italiane. Anche se, specie se sono coinvolti migranti e soprattutto potenziali rifugiati, possono esserci conseguenze dal punto di vista legale per chi impedisce lo sbarco: vediamo perché.

Le eccezioni

Come abbiamo visto, il fatto che una nave (qualunque essa sia) si trovi in acque interne, o in un porto, non dà automaticamente titolo al comandante di far sbarcare le persone che si trovano a bordo. Serve il consenso dell’autorità marittima territoriale.

Ma ci sono alcune eccezioni in cui questo consenso non può essere legittimamente negato.

Esistono infatti altre convenzioni internazionali, come quelle sul soccorso in mare di persone in pericolo di vita e sul diritto di asilo, che non possono essere scavalcate semplicemente con una legge nazionale, come ad esempio il “decreto sicurezza bis”.

Per esempio, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 stabilisce il principio di non respingimento al confine dei rifugiati, mentre un altro caso fa riferimento alle situazioni di una nave in condizioni di pericolo (quello che in gergo tecnico è chiamato distress).

«Se una nave è in situazione di pericolo e si rifugia in un porto dello Stato, lo Stato non può fare niente per bloccarla», ha chiarito Papanicolopolu. «Quando lo Stato viola uno di questi principi commette dunque un illecito internazionale».

Esistono poi altri problemi in cui può incorrere l’autorità italiana se decide di impedire uno sbarco di una nave, anche militare, con a bordo migranti.

Prendiamo per esempio in considerazione il caso della nave Diciotti, un’imbarcazione della Guardia costiera italiana con a bordo oltre 170 migranti a cui ad agosto 2018 il ministro Salvini ha impedito lo sbarco, dopo che per cinque giorni era rimasta attraccata al porto di Catania.

Il 24 gennaio 2019, lo stesso Salvini aveva annunciato in una diretta Facebook che, a causa del divieto di sbarco dei migranti a bordo della Diciotti ormai nel porto da giorni, era indagato per «sequestro aggravato di persone e di minori».

A gennaio scorso, il tribunale dei ministri di Catania aveva chiesto l’autorizzazione a procedere con le indagini contro il ministro dell’Interno, ma dal momento che Salvini è senatore, il 20 marzo 2019 il Senato si è espresso sulla vicenda, negando il proseguimento delle indagini.

Una situazione potenzialmente paradossale

Questo mix tra convenzioni internazionali e decisioni prese da singoli Stati può portare in certe circostanze a situazioni, per così dire, paradossali. Un Paese, per perseguire un proprio obiettivo – per esempio, impedire lo sbarco di migranti -, rischia di mancare un altro obiettivo altrettanto rilevante, per esempio, combattere la criminalità organizzata.

«Gli Stati hanno una serie di obblighi che si intersecano con quelli che sono i loro diritti sul territorio: uno su tutti l’obbligo di combattere il crimine organizzato transnazionale», ha detto Papanicolopolu. «Se l’Italia sospetta che una nave straniera, italiana o militare sia coinvolta nel traffico di migranti, di fatto se la caccia dalle sue acque, impedendole di sbarcare, contravviene a quelli che sono i suoi obblighi».

In sostanza, secondo Papanicolopolu, lo Stato deve investigare ogni singola situazione per verificare che cosa c’è dietro a un’imbarcazione e al trasporto di persone nel suo territorio. «È vero: è una questione di priorità», ha aggiunto Caffio. «In questo caso, l’autorità italiana potrebbe porre come priorità quella di disporre delle indagini e fermare i “sospetti” scafisti. L’Italia potrebbe addirittura intervenire subito nella zona contigua, quella a 12 miglia dall’inizio delle acque territoriali, per fermare le navi e arrestare gli scafisti, senza che questi entrino nelle nostre acque. Questo però non viene fatto perché non è ritenuta davvero una priorità, altrimenti bisognerebbe poi portare in Italia le persone a bordo delle navi fermate».

Conclusione

Il cosiddetto “decreto sicurezza bis” è legge dal 5 agosto. Dà al Ministero dell’Interno (insieme a quelli delle Infrastrutture e della Difesa) il potere di limitare o impedire a una nave il passaggio nelle acque territoriali italiane nel caso in cui violi le norme in tema di immigrazione.

La violazione del divieto comporterà per le navi multe da 150 mila a un milione di euro e il sequestro dell’imbarcazione.

A parte la sanzione così specificata, il contenuto del decreto sicurezza bis sulla questione passaggio o sbarco di navi con a bordo migranti non cambia sostanzialmente la situazione preesistente: il potere di divieto del Viminale è ora esplicitato in una norma nazionale, ma esisteva anche prima – e anche prima veniva esercitato – sulla base di norme internazionali.

Va però specificato che il provvedimento norma l’ingresso nelle acque territoriali, e non gli sbarchi nei porti. “Ingresso” e “sbarco”, come abbiamo spiegato, sono infatti due cose diverse.

Dunque non occupandosene, anche per quanto riguarda lo sbarco, il “decreto sicurezza bis” non cambia la situazione precedente: a una nave che trasporta migranti può, in teoria, essere negato lo sbarco, ma con il limite del non poter violare altre norme internazionali sul soccorso delle persone in mare e dei rifugiati.