Sette italiani su 10 in zona rossa: dove e come peggiora l’epidemia, dati alla mano

Ansa
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Nella settimana tra l’8 e il 14 marzo si sono registrati in Italia 155.934 nuovi casi di infezioni da coronavirus, circa 14 mila in più di una settimana fa e 40 mila in più di due settimane fa. L’incidenza settimanale a livello nazionale è di 260 casi ogni 100 mila abitanti, più di cinque volte il limite per il quale, nel nostro Paese, il tracciamento dei casi di fatto non funziona più, come mostrano i numeri passati sulla gestione italiana dell’epidemia.

Alla luce di questo peggioramento, il sistema di monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità e del Ministero della Salute ha portato in zona rossa per almeno le prossime due settimane circa il 70 per cento della popolazione italiana. Tra le conseguenze, alla luce del Dpcm del 2 marzo che ha disposto la didattica a distanza per tutte le scuole in zona rossa, da oggi circa il 75 per cento degli studenti (6,5 milioni) rimarrà a casa.

Vediamo, dati alla mano, quali sono le aree maggiormente colpite dal peggioramento dell’epidemia.

Il contagio cresce soprattutto al Nord

Dopo quasi un mese di stabilità, i contagi hanno iniziato a crescere a metà febbraio. Si è passati da una media di 13 mila nuovi casi al giorno a una di 20 mila, e al momento non è ancora stato raggiunto il nuovo picco. Complessivamente siamo ancora al 40 per cento in meno del massimo raggiunto a novembre scorso.

L’aumento dei casi è avvenuto in tutte le aree del paese, ma in particolar modo nelle regioni settentrionali. Il Nord-Est è la zona con il maggior numero di casi in questi giorni, seguita dal Nord-Ovest.

All’interno di queste macroaree ci sono andamenti molto diversi tra loro. Nel Nord-Est, ad esempio, la provincia autonoma di Bolzano sta avendo un forte calo grazie al lockdown imposto dalle autorità locali a metà febbraio, la provincia autonoma di Trento ha avuto una leggera crescita e ora è stabile, mentre il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto stanno crescendo, il primo con un ritmo particolarmente veloce.
C’entra la variante inglese?

Un ruolo nella maggiore diffusione lo ha probabilmente avuto la cosiddetta “variante inglese”. Come abbiamo spiegato di recente, questa variante è infatti maggiormente trasmissibile. Secondo l’ultima indagine di prevalenza condotta dall’Istituto superiore di sanità (Iss), a metà febbraio la variante inglese rappresentava oltre la metà dei nuovi casi. La Fondazione Bruno Kessler (Fbk), un ente di ricerca di interesse pubblico che collabora con l’Iss, ha stimato una sua maggiore trasmissibilità del 37 per cento basandosi sulle indagini di prevalenza dell’Iss.

Inoltre, secondo i dati di cui dispone l’Iss, a fine febbraio è aumentato il numero di pazienti lievi tra gli over 70 e diminuito leggermente quello dei casi severi, così come degli asintomatici. Sta anche aumentando la percentuale di casi diagnosticati tra gli uomini rispetto alle donne.

Sale il tasso di positività perché aumentano i molecolari positivi

Come abbiamo spiegato in passato, oltre al numero totale dei casi bisogna guardare al tasso di positività, ossia al numero di positivi che si trova sul numero di tamponi effettuati. Se questo è troppo alto – per esempio superiore al 5 per cento – vuol dire che il numero di casi che non si stanno intercettando è elevato. Sarà importante controllarlo anche in una situazione di calo, per essere sicuri che non si tratti di una discesa artificiale.

livello nazionale il tasso complessivo di positività è aumentato da circa il 5 per cento a circa il 7 per cento. La crescita però è dovuta in particolar modo ai tamponi molecolari, dove si è passati dall’8 all’11 per cento, mentre nei tamponi antigenici la crescita è molto contenuta. I tassi di positività sono più elevati nel Nord-Ovest e nel Nord-Est.

Il numero dei tamponi molecolari non è ancora tornato ai livelli di novembre (quando si toccò il massimo), ma considerando anche i tamponi antigenici, che fino a gennaio non erano inclusi nel conteggio, ora si fanno oltre 300 mila test giornalieri. Il Nord-Est è la macroarea che fa il maggior numero di test, mentre il Sud quella che ne fa meno.

I tassi di positività sono aumentati principalmente in Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto.

Molte regioni superano le soglie critiche per i ricoveri

L’altro aspetto da tenere sotto controllo è la situazione ospedaliera. In Italia questo è infatti uno dei parametri ritenuti fondamentali per decidere quali strategie di mitigazioni adottare.

Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), in Italia è occupato da pazienti Covid-19 il 34 per cento dei posti in terapia intensiva (superata dunque la soglia critica del 30 per cento) e il 38 per cento di quelli in area medica (molto vicini alla soglia critica del 40 per cento). Quando si va guardano queste percentuali va sempre tenuto conto che questi sono i posti occupati da pazienti positivi, ma poi ci sono anche gli altri pazienti ricoverati per altri motivi o quelli negativizzati dal virus, non conteggiati tra quelli Covid-19. Il tasso di occupazione delle terapie intensive è dunque parecchio più elevato, anche se non è possibile stabilire una percentuale precisa.

La crescita degli ospedalizzati e delle terapie intensive è iniziata a fine febbraio. In circa venti giorni le persone ricoverate in reparto sono aumentate di 7 mila unità, arrivando a circa 24.500 (il massimo è stato circa 34.600 a fine novembre), mentre le persone in terapia intensiva sono cresciute di circa mille unità arrivando a circa 3 mila (il massimo è stato circa 3.800).
Da dicembre però disponiamo anche del numero giornaliero di ingressi in terapia intensiva. Qui la crescita a livello nazionale è particolarmente pronunciata. Da circa 140 ingressi al giorno a metà febbraio si è passati a 250 in questi ultimi giorni.

La macroarea con il maggior numero di ospedalizzati è nuovamente il Nord-Ovest, che è anche la zona dove si è avuto il maggior aumento sia sui ricoveri sia sulle terapie intensive. Al Sud invece c’è una leggera tendenza all’aumento, ma la situazione appare al momento sotto controllo.

Gli ingressi in terapia intensiva mostrano una crescita diffusa, tranne che al Sud, e maggiore al Centro rispetto alle altre macroaree in relazione alla popolazione.

Le Marche sono la regione con il maggior numero di posti letto di area medica occupata da pazienti positivi al coronavirus (60 per cento). Umbria e Marche hanno il 56-57 per cento di posti letto in terapia intensiva attualmente occupato. Le regioni messe meglio sono invece Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia e Veneto.

I dati dell’Iss mostrano che l’età mediana delle persone che vengono ricoverate è stato di circa 70 anni nell’ultima metà di novembre, mentre quella di coloro che entrano in terapia intensiva è circa di 68 anni. A febbraio si è assistito a un leggero calo di entrambe le età mediane, ma potrebbe essere dovuto anche a ritardi di notifica, cioè a persone di cui non è ancora stato notificato all’Iss il ricovero in ospedale.

In conclusione

In Italia si è assistito a un aumento dei contagi da coronavirus tra fine febbraio e marzo, in parte probabilmente dovuto anche alla diffusione della variante inglese. Il sistema di monitoraggio settimanale ha portato da 15 marzo sette italiani su 10 in zona rossa per arginare i contagi.

Si sta assistendo anche a un aumento dei tassi di positività, indice che l’aumento dei casi non è solo dovuto al maggior numero di tamponi eseguito.

Anche negli ospedali si assiste a un aumento dei ricoverati con diverse regioni sopra le soglie di allerta. Nonostante questo, per ora si rimane complessivamente al di sotto dei livelli di allerta e la pressione ospedaliera non è ai livelli di novembre.

Complessivamente, tra le restrizioni adottate dalle regioni e le ultime decise a livello nazionale, è probabile che si assisti a un calo dei casi e a seguire degli ospedalizzati e poi dei decessi nelle prossime settimane.

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