Scuole aperte o chiuse: che cosa dice la scienza

Ansa
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Il 18 ottobre è stato approvato il nuovo decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), che contiene nuove misure per contenere l’accelerazione dell’epidemia da coronavirus nel nostro Paese.

Nonostante il dibattito degli ultimi giorni, il governo ha deciso di lasciare aperte le scuole, introducendo solo una novità: dal 21 ottobre nelle scuole superiori saranno favorite «forme flessibili nell’attività didattica», per esempio con ingressi degli alunni dalle ore 9 e, dove possibile, turni pomeridiani.

Questa scelta va in controtendenza rispetto a quanto stabilito il 15 ottobre dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca (Pd), che ha deciso di fermare fino a fine mese le lezioni in presenza nelle scuole primarie e secondarie e in università, obbligando docenti e studenti a passare alla didattica a distanza. Ora l’ordinanza di De Luca – definita «gravissima» dalla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina (M5s) – è arrivata davanti al Tar, che dovrà valutare se ci sono davvero i presupposti per la chiusura.

Tornando al piano nazionale, vista la forte crescita dei contagi e degli ospedalizzati nel nostro Paese, avrebbe davvero senso chiudere le scuole? Abbiamo analizzato che cosa dicono i numeri dell’epidemia e le prime evidenze scientifiche, ancora provvisorie, raccolte in questo ambito. Al momento, trovare una risposta abbastanza affidabile a questa domanda sembra davvero difficile. Vediamo perché.

Coronavirus e scuole: i numeri in Italia

Partiamo innanzitutto con le statistiche dei contagiati nelle scuole italiane. Secondo il monitoraggio del Ministero dell’Istruzione, al 10 ottobre – quindi dopo quattro settimane dall’apertura della maggior parte delle scuole in Italia, avvenuta il 14 settembre – gli studenti contagiati erano 5.793 (lo 0,08 per cento di tutta la popolazione studentesca), i docenti 1.020 (lo 0,14 per cento sul totale) e i dipendenti tra il personale non docente 283 (lo 0,14 per cento sul totale).

Questi dati, come hanno sottolineato diversi esperti, lasciano un po’ il tempo che trovano, dal momento che, per esempio, non sappiamo quanti positivi sono stati trovati nelle scuole in rapporto ai casi testati. Questa percentuale (il cosiddetto “tasso di positività”) permetterebbe di capire quanto si sta davvero realmente diffondendo il virus negli istituti scolastici.

In più, questi dati poco ci dicono sul rischio di contagio lungo il percorso per andare e tornare da scuola. Negli ultimi giorni, per esempio, si è molto discusso a proposito degli assembramenti sui mezzi pubblici del trasporto locale, che hanno visto notevolmente aumentare il numero degli utenti con la riapertura delle scuole.

In ogni caso, utilizzando le percentuali dell’incidenza date dal Ministero della Salute, si può stimare che tra studenti, docenti e il resto del personale, nelle scuole italiane ci siano oltre 8 milioni e 200 mila persone: si tratta di circa il 13,5 per cento della popolazione italiana. I casi di positività nelle scuole sono stati pari all’11,2 per cento dei casi totali registrati tra il 14 settembre e il 10 ottobre in Italia, quindi meno del “peso” del mondo scolastico sulla popolazione residente.

Ma, come abbiamo anticipato, le scuole non hanno aperto tutte insieme il 14 settembre: se si prende soltanto l’ultima settimana, si scopre che i contagi scolastici hanno rappresentato il 15,6 per cento dei contagiati nazionali.

L’Istituto superiore di sanità (Iss) nella settimana tra il 5 e l’11 ottobre ha inoltre rilevato circa 66 focolai nelle scuole su un totale di 1.749. Tra il 28 settembre e il 4 ottobre ne erano stati individuati circa 30 e in quella tra il 21 e il 27 settembre 14.

I dati, dunque, sembrano indicare un contesto di aumento. Ma qual è stato il reale contributo della riapertura delle scuole sull’arrivo della seconda ondata nel nostro Paese? E in quelli europei?

L’inganno dei grafici

La prima tentazione per rispondere a questa domanda è quella di vedere, a colpo d’occhio, qual è stato l’andamento della curva dei contagi in Italia e negli altri grandi Paesi europei dopo la data di riapertura delle scuole.

In Germania, Francia, Spagna e Regno Unito le lezioni in presenza sono via via riprese tra fine agosto e inizio settembre, e come mostra il Grafico 1 sembra esserci stato un forte aumento dei contagi nelle settimane successive alla riapertura, proprio in concomitanza con il ritorno di studenti e professori nelle classi.
Ma questo metodo di indagine è troppo superficiale: un’epidemia è un fenomeno molto complesso, dove moltissimi fattori giocano un ruolo causale nel determinare una maggiore o minore diffusione del virus. Andare a caccia di correlazioni, piazzando una linea arbitraria sulla curva dei contagi, in concomitanza della data di riapertura delle scuole, ci dice poco o nulla.

Basti pensare, per esempio, che la ripresa delle lezioni è avvenuta in concomitanza con il ritorno al lavoro di milioni di persone, dopo la pausa estiva, e con l’arrivo della stagione autunnale, che costringe le persone a stare maggiormente nei luoghi chiusi, terreno fertile per una malattia respiratoria come la Covid-19. Tutti elementi che hanno sicuramente contribuito a una maggiore diffusione del virus.

Insomma, servono prove più solide per dire che la riapertura delle scuole ha sicuramente determinato un aumento dei contagi nei grandi Paesi europei. Isolare le variabili in campo è un lavoro però tutt’altro che semplice.

Che cosa dicono le prime evidenze scientifiche

Qui entrano in gioco le prime, seppur molto provvisorie, evidenze scientifiche. In un articolo di inizio settembre, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica The New England of Journal of Medicine (Nejm), l’epidemiologo Marc Lipsitch e due colleghi hanno fatto il punto sulle prospettive cliniche ed epidemiologiche sulla riapertura delle scuole. In alcuni Paesi (come Finlandia, Danimarca, Taiwan e Singapore) il ritorno in classe non sembra aver determinato un peggioramento dei contagi, mentre un discorso diverso vale per Israele.

Partiamo dal presupposto che non si conoscono ancora molti dettagli sul nuovo coronavirus, e che ci sono evidenze contrastanti su come si diffonde tra gli adolescenti. In generale, possiamo dire con un ampio margine di certezza che chi ha meno di 18 anni – chi è in età scolastica, insomma – ha meno probabilità degli adulti di sviluppare forme gravi di Covid-19, ma meno chiaro è il fatto se i giovani siano meno infettivi, e meno propensi all’infezione, degli adulti.

Torneremo tra poco sulla questione, ma è innegabile che questa incertezza rende ancora più complicato il lavoro dei ricercatori che con metodi statistici cercano di isolare il contributo della riapertura della scuole alla crescita dei contagi. C’è comunque chi ci sta già provando.

Lo studio in Germania

Una recente ricerca condotta in Germania – non ancora sottoposta però al controllo della comunità scientifica, quindi da prendere con le pinze – ha analizzato l’impatto della riapertura delle scuole in Germania. Come prima cosa, gli stessi autori hanno sottolineato che fino ad oggi le evidenze empiriche sull’effetto della chiusura delle scuole sulle epidemie influenzali hanno portato a conclusioni «miste»: in alcuni casi, sembra essere una strategia vincente, in altri casi meno. E un discorso analogo vale per le primissime evidenze legate agli studi sul nuovo coronavirus.

Una delle ricerche iniziali, pubblicata su The Lancet ad aprile scorso, aveva evidenziato, sulla base di chiusure avvenute in Cina e a Hong Kong, che riaprire le scuole non sollevasse grandi problemi. Una prima osservazione che sembra essere confermata dallo studio tedesco appena citato.

Utilizzando un articolato modello statistico e sfruttando le diverse date di riaperture a seconda dei singoli Stati federali tedeschi, gli autori hanno infatti rilevato che la ripresa delle lezioni non sembra aver determinato un impatto significativo sulla crescita dell’epidemia. Anzi, tre settimane dopo la riapertura delle scuole, in Germania vi erano 0,55 casi in meno ogni 100.000 abitanti al giorno e l’effetto era particolarmente concentrato tra chi ha meno di 34 anni (Grafico 2).
Grafico 2. Il calo dello 0,55 per cento dei casi ogni 100 mila abitanti – Fonte: Isphording et al., 2020
Grafico 2. Il calo dello 0,55 per cento dei casi ogni 100 mila abitanti – Fonte: Isphording et al., 2020
Gli stessi autori sono rimasti stupiti dai dati raccolti e analizzati. Tra le possibili giustificazioni, c’è il fatto che le riaperture siano avvenute in concomitanza con una bassa circolazione del virus sul territorio nazionale; con l’utilizzo di test rapidi per mettere in quarantena velocemente le classi (cosa che permette di interrompere le catene del contagio); e con l’utilizzo delle mascherine e il distanziamento sociale all’interno della scuola.

Alcune evidenze negli altri Paesi

Anche negli Stati Uniti i primi dati raccolti dalla società di analisi quantitative Qualtrics e da alcune associazioni scolastiche hanno mostrato una bassa incidenza del contagio legato al mondo della scuola. I dati hanno infatti evidenziato un tasso di infezione dello 0,13 per cento tra gli studenti e dello 0,24 tra i docenti nelle ultime due settimane di settembre. In questo caso potrebbero comunque esserci delle distorsioni nella raccolta dei dati, visto che si tratta di “sole” 1.300 scuole e non è chiaro se siano rappresentative delle circa 130 mila presenti in tutti gli Stati Uniti.

Uno studio pubblicato a fine luglio scorso ha invece evidenziato che tra il 9 marzo e il 7 maggio 2020 la chiusura delle scuole negli Usa era associata a un significativo calo sia dell’incidenza dei contagi di Sars-CoV-2 sia della mortalità.

Un articolo del Wall Street Journal di metà agosto ha poi ricordato – come fatto anche da Lipsitch e colleghi sul Nejm – che i Paesi che hanno riaperto le scuole in primavera, dopo la prima ondata, non hanno riportato particolari aumenti nei casi di contagio. In particolare, la Danimarca è stata il primo Paese occidentale a riaprire asili nido e le scuole elementari e ha registrato in seguito una costante diminuzione dei casi a livello nazionale. Qui ritorna però il ricorrente problema di riuscire a isolare la variabile “riapertura delle scuole” dalle altre che influenzano l’andamento del contagio – in questo caso la più significativa era l’arrivo della stagione estiva. Da fine agosto, tra l’altro, anche in Danimarca i casi hanno ripreso a crescere.

Uno studio uscito a metà settembre – ma non ancora sottoposto al controllo della comunità scientifica – ha evidenziato che a giugno scorso la riapertura parziale delle scuole nel Regno Unito non era stata in grado di riportare sopra a 1 l’indice Rt, ossia il numero di riproduzione (che stima quanti nuovi contagi vengono generati da chi è già stato contagiato).

Infine, sempre un’altra ricerca pubblicata in pre-print – ripresa a fine agosto su Facebook anche dal biologo Enrico Bucci – ha mostrato che la chiusura delle scuole ha un effetto significativo nel ridurre l’indice Rt, quando questo è ancora sotto la soglia di 1,5.

Che cosa dice il dossier italiano più aggiornato

Questo clima di generale incertezza sul tema è avvalorato anche da quanto contenuto nel dossier “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale”, pubblicato il 12 ottobre e realizzato, tra gli altri, dal Ministero della Salute, dall’Iss e dall’Inail.

«La reale trasmissibilità di Sars-CoV-2 nelle scuole non è ancora nota, anche se cominciano a essere descritti focolai in ambienti scolastici in Paesi in cui le scuole sono state riaperte più a lungo. Non è inoltre stato quantificato l’impatto che potranno avere le misure di riorganizzazione scolastica adottate», spiega il rapporto. «Più in generale, non è noto quanto i bambini, prevalentemente asintomatici, trasmettano Sars-CoV-2 rispetto agli adulti, sebbene vi sia evidenza che la carica virale di sintomatici e asintomatici, e quindi il potenziale di trasmissione, non sia statisticamente differente. Tutto questo rende molto incerto il ruolo della trasmissione nelle scuole a partire da settembre sull’epidemiologia complessiva di Sars-CoV-2 in Italia».

A fine aprile, in una situazione profondamente diversa da quella attuale, uno studio realizzato, tra gli altri, dalla Fondazione Bruno Kessler e dal Ministero della Salute – e poi adottato dal Comitato tecnico scientifico – aveva stimato che «riaprire le scuole» dopo la chiusura di fine febbraio avrebbe portato «una nuova e rapida crescita epidemia di Covid-19». All’epoca i vari scenari elaborati dai ricercatori mostravano che chiudere le scuole potesse ridurre l’indice di riproduzione Rt in modo notevole.

Coronavirus e adolescenti

Al di là delle incertezze cliniche ed epidemiologiche sul rapporto tra nuovo coronavirus e adolescenti, va comunque sottolineato che anche i bambini trasmettono il virus: su questo non ci sono ormai più dubbi. Un recente studio, pubblicato su Science e condotto in India su 85.000 persone positive al coronavirus e 575 mila loro contatti, ha scoperto che i bambini hanno maggiori probabilità di trasmettere il virus ad altri bambini della loro età. I ricercatori non sono riusciti però a valutare la capacità di trasmissione dei bambini rispetto agli adulti (un case study pubblicato a metà settembre ha evidenziato che questa capacità è presente e non va trascurata).

La ricerca ha inoltre evidenziato che circa il 70 per cento degli individui infetti non ha contagiato nessuno dei suoi contatti, mentre l’8 per cento degli infetti si stima sia responsabile del 60 per cento delle nuove infezioni. Un’ulteriore evidenza sul ruolo degli individui super spreader nella diffusione del coronavirus.

«L’idea che i bambini non abbiano alcun ruolo nel processo di infezione sicuramente non è corretta», ha detto a fine settembre al New York Times Joseph Lewnard, l’epidemiologo dell’Università di Berkeley (California) che ha guidato lo studio. «Certo, non c’è un numero enorme di bambini nei dati sul tracciamento dei contatti, ma quelli che ci sono stanno sicuramente trasmettendo» il virus.

Va inoltre considerato che i contagi nei diversi ordini scolastici possono avere diversi effetti. Uno studio pubblicato ad agosto – ma non ancora revisionato dalla comunità scientifica – ha mostrato che l’apertura delle scuole superiori può avere un maggior impatto rispetto a quello delle scuole dell’infanzia o primarie perché gli studenti delle superiori tendono ad avere maggiori contatti al di fuori della scuola e del nucleo familiare. Se questi studenti si contagiano in aula, possono quindi trasmettere il virus ad altri con maggiore facilità.

Questa ipotesi è avvalorata anche dai dati raccolti tra marzo e settembre dai Centers for Disease Control and Prevention – uno dei più importanti organismi di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti – che hanno mostrato come l’incidenza dei casi tra i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sia stata pari al doppio di quella registrata tra i bambini tra i 5 e gli 11 anni.

Che cosa hanno fatto gli altri Paesi

Prima di concludere, diamo un’occhiata a che cosa sta succedendo nelle scuole in giro per l’Europa negli ultimi giorni.

Quando a marzo la pandemia ha raggiunto il nostro continente, la quasi totalità dei Paesi aveva scelto di chiudere le scuole per provare ad arginare la diffusione del coronavirus. In questi mesi, nonostante l’arrivo della seconda ondata, la maggior parte dei governi sta cercando a tutti i costi di evitare di prendere una decisione simile. Ma di fronte a certi numeri, alcuni hanno iniziato a fare marcia indietro.

La Repubblica Ceca, dopo aver raggiunto uno dei livelli di contagio più alti del mondo, ha deciso di chiudere tutte le scuole, tranne gli asili e le materne. Una decisione simile è stata presa dal governo dell’Irlanda del Nord, nel Regno Unito. Le scuole sono state chiuse fino al 2 novembre: in quella data si deciderà poi come procedere.

Un esempio da non seguire nella riapertura delle scuole è Israele, che aveva fermato le lezioni a marzo scorso, per riaprirle poi a maggio. Una serie di decisioni sbagliate, come la possibilità di non usare la mascherina e tenere le finestre chiuse in classe, ha portato alla nascita di numerosi focolai scolastici, obbligando Israele a chiuderne centinaia.

A seguito di un forte peggioramento della situazione, Israele è stato poi il primo Paese a entrare nuovamente in un lockdown totale a fine settembre. Negli ultimi giorni, sono state rimosse alcune restrizioni e sono stati riaperti, per esempio, gli asili nido e le scuole materne.

In Francia la Santé publique – l’agenzia di salute pubblica nazionale – nel suo ultimo bollettino dell’8 ottobre ha rilevato che il 35 per cento dei focolai su cui c’è stata un’indagine epidemiologica nel Paese era relativo alle scuole o all’università. Se si guarda a tutti i focolai segnalati si scende invece al 21 per cento. I dati sui focolai sono però ottenuti escludendo quelli familiari e quelli delle case di riposo, luoghi dove il contagio è spesso preponderante. Nonostante i numeri preoccupanti, il governo francese non ha chiuso le scuole, anche se va considerato che a partire dal 17 ottobre fino al 2 novembre ci sono le vacanze di Ognissanti.

In conclusione

La gestione delle scuole è sicuramente uno dei temi più delicati durante questa seconda ondata dell’epidemia di coronavirus. Se a marzo scorso la quasi totalità dei Paesi europei e del mondo aveva deciso di chiuderle, ora i governi sembrano molto più restii a farlo, viste anche le probabili numerose conseguenze negative in termini di socialità e apprendimento.

Alcuni, come Repubblica Ceca e Irlanda del Nord, hanno però già deciso di sospendere le lezioni in presenza, proprio a causa del peggioramento dei contagi.

Al momento, non ci sono solide evidenze scientifiche secondo cui la scuola aumenti in maniera significativa la diffusione del virus. Ma allo stesso tempo non ce ne sono che mostrino con maggiore affidabilità il contrario.

In Italia i contagi scolastici sembrano essere ancora contenuti, anche se è evidente un aumento della diffusione. I focolai stanno raddoppiando ogni settimana e gli ultimi dati mostrano che l’incidenza sulla popolazione scolastica sembra essere stata maggiore di quella sulla popolazione complessiva.

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