Perché i registri elettorali sono divisi tra maschi e femmine

La divisione per genere, molto criticata alle elezioni del 25 settembre, è stata introdotta nel 1945 per un motivo specifico, e i tentativi per eliminarla non sono andati a buon fine
ANSA / Matteo Corner
ANSA / Matteo Corner
In occasione delle elezioni politiche del 25 settembre ha fatto discutere il fatto che, al seggio elettorale, i registri dei cittadini e delle cittadine che possono votare fossero divise per genere, tra maschi e femmine. Secondo vari attivisti per i diritti civili, questo lederebbe i diritti delle persone transessuali e non binarie, che non si riconoscono nel genere maschile e femminile e potrebbero decidere di rinunciare a votare per non dover pubblicamente identificare il proprio genere. 

La separazione delle liste elettorali tra maschi e femmine non è una novità, anzi: esiste dal 1945 e finora tutti i tentativi per cambiare questa regola non sono andati a buon fine. Ma perché esiste questa distinzione? E quali sono le proposte per superarla? 

Le origini della divisione per genere

Come spiega il manuale pubblicato dal Ministero dell’Interno in occasione delle elezioni politiche del 25 settembre, le liste (o registri) elettorali sono gli elenchi in cui ogni comune italiano tiene traccia di tutti i cittadini maggiorenni, iscritti all’anagrafe della popolazione o all’anagrafe dei residenti all’estero, che hanno diritto di voto. Queste liste elettorali sono poi suddivise in liste sezionali, che comprendono tutti i cittadini che abitano in una determinata zona del comune e che quindi votano nello stesso seggio e nella stessa sezione elettorale. 

La divisione per genere delle liste è stata decisa per la prima volta da un decreto del 1° febbraio 1945, emanato dal governo di Ivanoe Bonomi, che estendeva il diritto di voto anche alle donne che avessero compiuto almeno 21 anni. Di conseguenza, il decreto ordinava (art. 2) la «compilazione delle liste elettorali femminili» in tutti i comuni, specificando che queste avrebbero dovuto essere «distinte da quelle maschili». 

La norma è stata confermata dalla legge n. 1058 del 7 ottobre 1947, che ribadiva il diritto di voto per le donne a partire dai 21 anni e la divisione per genere delle liste elettorali (art. 4), aggiungendo che queste dovevano riportare nome e cognome dell’iscritto, la paternità, il luogo e la data di nascita, il titolo di studio, la professione e l’indirizzo di domicilio. Per le donne doveva essere indicato anche il cognome del marito. Nel 1966 è stato eliminato (art. 4) l’obbligo di indicare la paternità, mentre tutti gli altri requisiti sono stati confermati (art. 5) anche da un decreto del presidente della Repubblica del 1967. Nel 2003 sono state eliminate dalle liste elettorali le informazioni relative al titolo di studio e alla professione degli iscritti, ma è rimasta la divisione delle liste tra maschi e femmine e l’obbligo, per le donne, di indicare il cognome del marito.

Ricapitolando: le liste elettorali sono divise per genere fin da quando le donne hanno acquisito il diritto di voto, nel 1945, e da quel momento questa prassi non è mai stata modificata, nonostante altre parti della legge in questione siano state modificate.  

La proposta di legge per cambiare le cose

Se quindi inizialmente la decisione di creare nuove liste elettorali poteva essere dovuta a ragioni pratiche – nel 1945 le liste degli uomini esistevano già, mentre quelle delle donne dovevano essere create ex novo – oggi non ci sono motivazioni rilevanti per continuare a mantenerla.

«Si tratta di una norma degli anni Quaranta, che non viene cambiata perché per il Ministero dell’Interno è difficile modificare le liste, per ragioni organizzative», ha spiegato a Pagella Politica Giuditta Pini, deputata del Partito democratico che nell’aprile 2022 ha presentato, insieme ad Angela Schirò (Pd) una proposta di legge proprio per superare la distinzione di genere tra le liste elettorali e l’obbligo per le donne di indicare il nome del marito. A maggio la proposta è stata assegnata alla Commissione Affari costituzionali, ma l’iter si è poi arenato, anche a causa della fine anticipata della legislatura. 

«Inizialmente, il cognome del marito serviva per evitare casi di omonimia, il che è assurdo, perché agli uomini non è mai stato richiesto», ha detto Pini. La divisione per genere invece era una «comodità», perché all’anagrafe i cittadini «erano già divisi per genere», e un’agevolazione per la raccolta di dati statistici. 

Per eliminare la divisione di genere senza ledere alla possibilità di svolgere indagini statistiche ed evitare comunque i casi di omonimia, Pini e Schirò hanno proposto di unificare le liste elettorali seguendo l’ordine alfabetico e utilizzare un «codice univoco, attribuito insieme alla tessera elettorale, oppure il codice fiscale», per identificare con sicurezza ogni elettore ed elettrice che si reca ai seggi.

Quando è stata presentata, però, «la proposta di legge è stata ignorata, perché al tempo non c’era un dibattito né nel Paese né in Parlamento», ha spiegato Pini a Pagella Politica, aggiungendo: «Si tratta in realtà di una cosa banale, che potrebbe essere risolta con un decreto ministeriale o con un emendamento. Ora, con la digitalizzazione delle liste e dei documenti, sarebbe molto semplice». 

Al netto della loro proposta di legge, né Pini né Schirò sono state ricandidate alle elezioni del 25 settembre. Non faranno dunque parte del prossimo Parlamento: la loro proposta, per diventare legge, dovrà essere presentata da altri parlamentari.

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