Dopo nove mesi di pandemia e di scontri fra governo centrale e regioni sulla gestione dell’emergenza sanitaria, nella maggioranza sono in molti a dirlo: è necessario rivedere il Titolo V, la sezione della Costituzione dedicata ai poteri e alle competenze di regioni, province e comuni.

Il 6 novembre, Matteo Renzi, leader di Italia viva, lo ha scritto su Facebook: «Il caos di queste ore tra Regioni e Stato centrale dimostra una cosa semplice: il Titolo V della Costituzione così com’è NON funziona». Lo stesso giorno, la vicepresidente del Senato Paola Taverna (Movimento 5 stelle) si è espressa in termini simili in un’intervista ad Affaritaliani.it: «Una delle cose che questa pandemia ci ha insegnato è che la riforma del Titolo V della Costituzione ha fallito». E il 7 novembre il vicesegretario del Pd Andrea Orlando ha rilanciato il tema in un’intervista a La Stampa: «Dopo la pandemia servirà una riforma per evitare lo scaricabarile tra poteri dello Stato, che getta discredito su tutte le istituzioni».

Vediamo allora cosa prevede il Titolo V dalla riforma del 2001, in che misura è accusato di aver ostacolato l’azione del governo in questi mesi e come potrebbe cambiare nel futuro prossimo.

La riforma costituzionale del 2001

Il 7 ottobre 2001, dieci milioni di cittadini italiani confermarono con il proprio sì la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3). Il referendum – a cui partecipò solo il 34 per cento dei votanti – rappresentava il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato nel 1997, durante il primo governo Prodi, con una commissione bicamerale sul tema.

Due anni dopo, nel 1999 – il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema – il lavoro della commissione era confluito in una proposta di legge. L’approvazione del testo infine arrivò a marzo 2001 quando a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato. La riforma è nata quindi dal centrosinistra, in un periodo in cui il dibattito sul rapporto fra Stato e regioni era quanto mai acceso anche per effetto delle spinte federaliste dell’allora Lega Nord. Una dinamica descritta di recente da un esponente del Pd, Gianni Cuperlo, in termini critici: «Nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

La riforma del 2001 ha esteso in maniera decisiva i poteri delle regioni, riscrivendo radicalmente l’articolo 117 della Costituzione. La modifica ribaltava il criterio di ripartizione delle competenze regionali e statali. Prima della riforma, l’articolo 117 attribuiva alle regioni solo competenze in materia molto specifiche e limitate, come la «polizia locale urbana e rurale», il turismo e la viabilità, la caccia, l’assistenza sanitaria ed ospedaliera. Tutte le altre erano in capo allo Stato centrale.

Al contrario, con la legge costituzionale del 2001, il nuovo articolo 117 – tuttora in vigore – specifica prima di tutto una serie di diciassette competenze esclusive dello Stato (dalla politica estera all’immigrazione, dalla difesa alla giustizia e alla tutela dell’ambiente).

Si introduce poi una nuova categoria, quella delle competenze concorrenti, su cui entrambi possono intervenire: figurano tra questi i «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni», il «commercio con l’estero», la «ricerca scientifica» e la «tutela della salute». Con una precisazione: per quanto riguarda le materie concorrenti «spetta alle Regioni la potestà legislativa» ma rimane allo Stato la «determinazione dei princìpi fondamentali».

Veniva poi lasciata esplicitamente alle regioni «la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Il cambiamento introdotto dalla riforma del 2001 era insomma notevole: invece di elencare gli unici ambiti in cui le regioni potevano intervenire (come era pre-riforma) si stabilivano i settori di esclusiva competenza dello Stato, quelli “concorrenti” e si lasciava alle regioni la possibilità di intervenire in tutti gli altri non esplicitati.

Al di là delle valutazioni di merito, la riforma del Titolo V ha di certo accentuato la conflittualità fra Stato e regioni, dato che nella pratica si è rivelato molto difficile distinguere dove finissero le competenze statali e dove cominciassero quelle regionali, specie nel caso delle competenze concorrenti. Secondo i dati raccolti dal Sole 24 ore a settembre 2019, la confusione sulle materie concorrenti ha prodotto dal 2001 al 2018 oltre 1.800 ricorsi davanti alla Corte Costituzionale. Nel 2018, le liti fra Roma e le regioni hanno impegnato una sentenza su due della Consulta.

Come abbiamo visto, fra le competenze concorrenti ci sono appunto sia la «tutela della salute» che l’«istruzione». La sovrapposizione tra Stato e regioni in queste due materie è diventata ancor più problematica nel corso della pandemia.

Pandemia, ordinanze e ricorsi

Negli ultimi mesi, il difficile rapporto fra Stato e regioni è emerso chiaramente nel rimpallo reciproco di responsabilità e accuse – tanto da spingere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di recente, a intervenire per chiedere maggiore collaborazione. Il confronto fra governo centrale e governi locali non si è però limitato alla dialettica politica. Fin dall’inizio della crisi sanitaria, ha preso la forma di uno scontro a colpi di ordinanze e ricorsi.

Ricordiamo due esempi di cui si è molto discusso. Il 24 febbraio 2020 il presidente della regione Marche Luca Ceriscioli ha annunciato alla stampa un’ordinanza con cui avrebbe chiuso le scuole di ogni ordine e grado per prevenire la diffusione del virus. Nel corso della conferenza, Ceriscioli ha ricevuto una telefonata del presidente del Consiglio Giuseppe Conte che lo invitava a non prendere decisioni prima della riunione fra governo e regioni, prevista per la mattina seguente. Il giorno successivo il presidente marchigiano ha comunque emesso l’atto per la sospensione delle attività scolastiche: l’ordinanza è stata prontamente impugnata dal governo e sospesa dal Tribunale amministrativo delle Marche con il decreto n. 56 del 27 febbraio, principalmente perché in quel momento non c’erano ancora casi accertati di contagio nella regione ma solo rischi dovuti alla prossimità con l’Emilia Romagna, dove erano già stati individuati alcuni infetti.

In primavera una sorte simile è toccata alla Calabria. Prima che il governo decidesse la riapertura delle attività a livello nazionale, il 30 aprile 2020, l’allora presidente Jole Santelli ha adottato un’ordinanza con la quale riapriva nella sua regione i ristoranti e i bar con servizio al tavolo all’aperto. Anche questo atto è stato impugnato dal governo centrale e annullato dalla sentenza del 9 maggio 2020 dal Tar della Calabria. Secondo il Tar la Regione Calabria aveva tra le altre cose prevaricato le competenze del governo e non aveva rispettato il dovere di leale collaborazione fra i due poteri.

In questi casi – come in tutti gli altri, finora – i ricorsi sono sempre stati presentati davanti ai Tar (tribunali amministrativi regionali) proprio perché le ordinanze sono atti amministrativi e, soprattutto, le loro sentenze hanno tempistiche di solito più rapide di quelle della Corte costituzionale. Nonostante lo Stato abbia avuto la meglio sulle decisioni dei presidenti regionali, episodi di questo tipo hanno contribuito a generare confusione fra i cittadini e un forte senso di disunità all’interno delle istituzioni.

Per questo c’è chi vorrebbe risolvere il problema alla radice, rimettendo in discussione il Titolo V così com’è oggi.

Matteo Renzi, la riforma bocciata e le nuove proposte

In prima fila, come abbiamo visto, c’è il leader di Italia Viva Matteo Renzi. L’ex presidente del Consiglio lo ha ribadito su Facebook il 6 novembre: «Il caos di queste ore tra Regioni e Stato centrale dimostra una cosa semplice: il Titolo V della Costituzione così com’è NON funziona. Quattro anni fa – in quel famoso referendum – avevamo proposto di inserire la clausola di supremazia».

L’articolo 31 del disegno di legge costituzionale Boschi-Renzi puntava in effetti a invertire la riforma del Titolo V del 2001. Parte delle materie concorrenti previste dall’attuale articolo 117 della Costituzione sarebbero rientrate sotto la legislazione esclusiva dello Stato: fra queste, anche la «tutela della salute». In più, si prevedeva in effetti una clausola di supremazia dello Stato su tutte le materie: «Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Come sappiamo, la legge costituzionale voluta da Matteo Renzi è stata bocciata da circa il 60 per cento degli italiani nel referendum del 4 dicembre 2016.

Attualmente due progetti di legge costituzionale del Pd hanno riproposto la questione della clausola di supremazia. Una, a prima firma del deputato Stefano Ceccanti, è stata depositata alla Camera il 4 marzo 2020, ma non ha ancora iniziato l’iter parlamentare. L’altra, a prima firma Dario Parrini, è stata assegnata alla commissione Affari costituzionali del Senato, e sta già muovendo i primi passi. Entrambe recuperano quasi alla lettera il comma previsto dal ddl Boschi-Renzi sulla clausola di supremazia.

Nei due testi silegge all’articolo 2: «Su proposta del Governo e previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, la legge statale può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». C’è una differenza significativa rispetto alla clausola prevista dalla riforma Boschi-Renzi: la “costituzionalizzazione” della Conferenza Stato-Regioni. L’assemblea dei presidenti di regione verrebbe inserita per la prima volta nella Carta.

Il punto di vista di Giulio Tremonti

C’è però chi ritiene che le difficoltà di gestione della crisi sanitaria non sia da imputare al Titolo V né alle regioni. È il caso dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Il 9 novembre, in un’intervista al Corriere della sera, Tremonti ha sottolineato che con una pandemia in corso, il Titolo V della Costituzione, consente comunque soluzioni di tipo “centralista”. L’ex ministro ha detto nella specifico che «la lettera q dell’articolo 117 cita espressamente la «profilassi internazionale» tra le materie in cui lo Stato ha competenza esclusiva. E all’articolo 120 c’è scritto che il governo può sostituirsi agli enti locali quando – testualmente – c’è «un pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica».

I riferimenti legislativi citati da Tremonti sono corretti. Come vediamo da una tabella di confronto di un dossier del Servizio Studi del Senato, l’articolo 117, nella formulazione introdotta dalla riforma del 2001, prevede alla lettera q, fra le materie su cui lo Stato ha la competenza esclusiva, proprio la «profilassi internazionale», ovvero – prendiamo in prestito la definizione del sito giuridicoBrocardi.it – l’insieme delle procedure mediche adottate a livello internazionale per prevenire l’insorgere e la diffusione di malattie.

Tremonti ha ragione anche sull’articolo 120 della Costituzione: con la riforma del 2001, vi è stato aggiunto un comma in cui si stabilisce che «il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica» oppure quando lo richiedono «la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Quasi la clausola di supremazia che avrebbe voluto Matteo Renzi nel 2016 e che ripropone il Pd con le ultime proposte di legge sul tema.

Già a marzo, l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida ha sostenuto in un editoriale sul Sole 24 ore che non servano nuove clausole di supremazia per regolare il rapporto Stato-regioni. Il costituzionalista ha citato proprio l’articolo 120 della Costituzione, precisando inoltre che «la tutela della salute dal punto di vista legislativo è competenza “ripartita”, nel senso che spetta allo Stato fissare i principi fondamentali e alle Regioni la disciplina di dettaglio». A questo va aggiunto, sul fronte amministrativo, «il principio di sussidiarietà, per cui la legge può affidare a organi di livello superiore le attribuzioni che non possono essere adeguatamente svolte a livello inferiore».

In conclusione

Nel 2001, una legge costituzionale ha ampliato in maniera decisiva le competenze delle regioni, estese in parte anche alla tutela della salute e all’istruzione, inserite fra le materie su cui la legislazione è concorrente.

Gli scontri costanti fra governo centrale e regioni in questi mesi – resi visibili dagli episodi in cui ordinanze regionali sono state impugnate dallo Stato centrale e annullate dai tribunali amministrativi – hanno portato molti esponenti della maggioranza a parlare della necessità di rivedere nuovamente il Titolo V.

Fra le ipotesi c’è quella di inserire una clausola di supremazia, che permetta alla legge statale di intervenire «in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica» oppure «la tutela dell’interesse nazionale». Una clausola di questo tipo era già presente nella riforma Boschi-Renzi, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016. La norma è stata riproposta dal Partito democratico, con due progetti di legge, uno alla Camera e l’altro al Senato.

Secondo alcuni, tuttavia, come l’ex presidente della Consulta Valerio Onida e di recente l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, la Costituzione, così com’è oggi, prevede già la superiorità della legge statale in circostanze nelle quali la pandemia rientra senza dubbio: quando si tratta di «profilassi internazionale», ovvero delle procedure necessarie a prevenire la diffusione di una malattia e in casi di «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica», proprio nei termini della clausola di supremazia che si vorrebbe inserire – ma che appunto, sarebbe già presente all’interno della Costituzione.