Da giugno Sinistra italiana sta raccogliendo le firme, anche online, a favore di una proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre un’imposta patrimoniale (chiamata Next generation tax) sulle «grandi ricchezze» e ridurre le tasse al ceto medio.

Vediamo innanzitutto che cosa prevede nel concreto questa proposta, per poi analizzare se i dati usati dai promotori a sostegno dell’iniziativa corrispondono al vero o meno.

Di che cosa stiamo parlando

Il progetto di legge di Sinistra italiana si compone di due articoli e come primo obiettivo ha quello di eliminare l’Imu, ossia l’imposta sugli immobili, e il bollo su conti correnti e di deposito titoli.

Per sostituire queste imposte, si propone di istituire, a partire dal 1° gennaio 2022, un’imposta sui patrimoni composti da una ricchezza netta (ossia non tenendo conto dei debiti) superiore ai 500 mila euro, posseduta sia in Italia sia all’estero. Alle ricchezze che superano questa soglia vengono applicate cinque aliquote, in base a cinque diversi scaglioni di patrimonio. Le ricchezze nette tra 500 mila e un milione di euro pagheranno un’imposta pari allo 0,2 per cento, che sale allo 0,5 per cento per quelle fino a 5 milioni. I patrimoni fino a 10 milioni sarebbero tassati con un’aliquota dell’1 per cento, mentre quelli fino a 50 milioni con un’aliquota dell’1,5 per cento. Le ricchezze superiori ai 50 milioni di euro dovranno invece pagare un’imposta del 2 per cento.

Al di là del contenuto specifico della proposta di Sinistra italiana, è bene precisare che una legge di iniziativa popolare, per essere discussa in Parlamento, deve ricevere almeno 50 mila firme entro i sei mesi dal deposito della proposta in Cassazione, avvenuto lo scorso 12 giugno. Ad oggi i promotori dell’iniziativa non hanno ancora annunciato se questo traguardo sia stato raggiunto o meno.

Il progetto di legge presentato da Sinistra italiana contiene una relazione introduttiva, con diversi numeri sulla distribuzione della ricchezza in Italia. Quanti sono corretti e quanti no? Vediamoli uno per uno.

Come è distribuita la ricchezza in Italia

«In Italia l’uno per cento più abbiente possiede il 25 per cento della ricchezza complessiva, mentre il 60 per cento più povero si deve accontentare del 15 per cento»

Questo dato è sostanzialmente corretto, anche se approssimato per eccesso. Con tutta probabilità, con queste statistiche Sinistra italiana fa riferimento a un report pubblicato a gennaio 2021 da Oxfam, una rete di organizzazioni no profit attive nella lotta alla povertà. Secondo Oxfam, nel 2019 l’uno per cento più ricco della popolazione italiana deteneva il 22 per cento della ricchezza nazionale, mentre il 60 per cento più povero ne possedeva solo il 13,3 per cento.

Come abbiamo già sottolineato in altre analisi, in passato i rapporti stilati da Oxfam hanno fatto discutere per le fonti e la metodologia utilizzata. Nel caso del report del 2021, i dati Oxfam provengono dal Global wealth report 2019, uno studio della banca svizzera Credit Suisse che analizza il cosiddetto household net worth, ossia la ricchezza per nucleo familiare, formata dagli asset finanziari (tra cui azioni, bond, liquidità e fondi pensionistici) e da altre proprietà, meno gli eventuali debiti.

Tra le istituzioni italiane, i dati più recenti sulle disuguaglianze sono quelli della Banca d’Italia, che nell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, pubblicata nel 2018 (su dati del 2016), stabiliva che il 30 per cento delle famiglie più ricche deteneva il 70 per cento della ricchezza totale. Di questa quota, oltre il 40 per cento era posseduta dal 5 per cento delle famiglie più ricche, che avevano un patrimonio medio di 1,3 milioni di euro.

Ricapitolando: il dato riportato da Si sulla distribuzione della ricchezza è tutto sommato corretto, anche se approssimato per eccesso.

Quanto sono cresciute le disuguaglianze

«L’Italia è il Paese europeo in cui dagli anni Novanta a oggi si è maggiormente ristretta la quota di ricchezza posseduta dal 50 per cento più povero della popolazione, crollata dell’80 per cento, mentre è esplosa quella nelle mani dello 0,1 per cento più ricco, letteralmente triplicata»

Partiamo dalla seconda parte della dichiarazione, quella secondo cui dagli anni Novanta a oggi lo 0,1 per cento più ricco di italiani ha triplicato la propria quota di ricchezza nazionale.

La fonte dei dati è molto probabilmente uno studio pubblicato lo scorso aprile, realizzato da Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e Salvatore Morelli, tre ricercatori che hanno analizzato la concentrazione della ricchezza in Italia dal 1995 al 2016. Il lavoro di Acciari, Alvaredo e Morelli si basa sui registri delle imposte di successione presentate all’Agenzia delle entrate dal 1995 al 2016, una fonte di dati solitamente non utilizzata per questo tipo di studi, ma che a detta degli autori «permette di osservare meglio i gruppi dei ricchi di patrimonio, nonostante l’esistenza di comportamenti di evasione ed elusione fiscale».

Secondo questo studio, il nostro Paese è stato investito da una vera e propria inversione delle fortune a partire dalla metà degli anni Novanta, fino al 2016. In questi 20 anni la ricchezza netta media (la net worth citato in precedenza) dello 0,1 per cento di italiani più ricco (circa 60 mila persone) è passato da 7,6 milioni di euro a 15,8 milioni di euro, aumentando la sua quota sul totale della ricchezza dal 5,5 per cento al 9,3 per cento. Più che un raddoppio, ma non un triplicamento, dunque.

Verifichiamo adesso la prima parte della dichiarazione, secondo cui la ricchezza del 50 per cento più povero della popolazione nazionale si è ridotta dell’80 per cento negli ultimi 30 anni.

Acciari, Alvaredo e Morelli segnalano che nel 1995 i circa 25 milioni di italiani meno abbienti controllavano l’11,7 per cento della ricchezza totale, mentre nel 2016 la percentuale è crollata fino al 3,5 per cento. Il patrimonio medio pro capite di questa parte della popolazione è passato quindi da 27 mila euro a soli 7 mila in poco più di 20 anni. Questo dato sembra concordare a grandi linee con l’indagine della Banca d’Italia sulle famiglie italiane, per cui la quota di ricchezza netta in possesso del 30 per cento delle famiglie più povera era 6.500 euro, pari a circa l’uno per cento del totale.

In ogni caso, la perdita di ricchezza riscontrata nel periodo 1995-2016 per la metà più povera degli italiani è dell’80 per cento, in linea quindi con quanto dichiarato dai promotori della Next generation tax.

Ricapitolando: è vero che negli ultimi 25 anni la quota di ricchezza del 50 per cento più povero è crollata dell’80 per cento. Ma è vero che questo dato è un record in Europa?

La statistica sembra essere plausibile, in base alle evidenze a disposizione, anche se non è possibile stabilire con certezza il primato italiano. Nel loro studio, i tre ricercatori confrontano i dati in loro possesso con altri studi simili applicati ad altre nazioni europee come Francia, Spagna e Germania. Nel confronto con questi Paesi, al 2016 l’Italia è in linea per quanto riguarda la concentrazione delle ricchezze. Tuttavia, la quota della metà più povera della popolazione ha sperimentato il più forte declino dalla metà degli anni 90 se confrontata con gli altri Paesi in esame.

Ricapitolando: sebbene il confronto con Spagna, Francia e Germania dimostri come in Italia la quota di ricchezza del 50 per cento più povero sia diminuita maggiormente, il dato non tiene conto di tutti gli altri Paesi europei e non permette quindi di affermare che l’Italia sia il Paese in Europa dove queste ricchezze sono diminuite maggiormente.