Il 27 settembre 2019, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha scritto un post sui social a sostegno del Global Strike for Future, la manifestazione mondiale per il clima, dicendo che «se la Terra muore non c’è più posto per nessuno […] Salvare il pianeta è una responsabilità di tutte e tutti».

Ma è vero che il riscaldamento globale può “uccidere” il nostro Pianeta – tutta la vita sul nostro Pianeta, compresa la specie umana? E da un punto di vista comunicativo, messaggi di questo tipo sono efficaci?

Di che cosa stiamo parlando

Il riscaldamento globale è un fenomeno reale e il consenso della comunità scientifica è pressoché unanime sulla responsabilità almeno parziale della nostra specie.

La ricerca più autorevole e recente sul tema è stata pubblicata a ottobre 2018 dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il principale organismo internazionale delle Nazioni Unite che studia il fenomeno del riscaldamento globale.

Nel “Sommario per i decisori politici” (tradotto in italiano a luglio 2019 dalla Società italiana per la scienza del clima) si legge che le attività umane hanno causato un riscaldamento globale di circa 1°C rispetto ai livelli preindustriali e che «è probabile che il riscaldamento globale raggiungerà 1,5°C tra il 2030 e il 2052 se continuerà ad aumentare al tasso attuale».

Secondo diversi ricercatori nonostante gli accordi tra gli Stati si rischia di superare comunque l’aumento medio di 2°C – superando addirittura i 3°C appena dopo il 2100 – ma questo scenario dipende dalle scelte future, dal cosa si farà per rallentare il riscaldamento globale.

In questo contesto, le conseguenze per il nostro Pianeta (anche solo con l’aumento di mezzo grado, da +1,5°C a +2°C) potrebbero essere disastrose. In realtà anche solo un decimo di grado in più – che può sembrare poca cosa – potrebbe causare danni irreparabili, dal momento che gli effetti di questi aumenti non sono lineari, ma possono essere repentini ed estremi.

Tra questi, è compresa anche la “morte della Terra”?

La scomparsa della vita

«“Uccidere il Pianeta” è una cosa molto difficile da fare: tutti gli studi più recenti propendono per il fatto che anche un effetto serra incontrollato e irreversibile non dovrebbe riuscire a portare all’estinzione completa della vita sulla Terra», ha spiegato a Pagella Politica Stefano Caserini, ingegnere ambientale e professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. «I danni del riscaldamento globale sulle specie viventi sono comunque qualcosa di straordinario, di veramente nuovo nella storia della civiltà umana».

Questa tesi è confermata da numerosi studi scientifici, secondo i quali è molto probabile che ci troviamo all’inizio di un’estinzione di massa (la sesta nella storia della Terra), anche se è presto per averne la certezza – come abbiamo scritto di recente.

Secondo le stime del 2019 dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes) dell’Onu – l’equivalente dell’Ipcc per la biodiversità – l’emergenza climatica sta mettendo a rischio di estinzione molte più specie che in passato. Un milione circa, tra animali e piante, potrebbe sparire per sempre nel giro di pochi decenni.

«È da tempo che si discute sul “Salvare il Pianeta” perché è un’espressione nata in una cornice concettuale e verbale che arriva da lontano: si è diffusa nel mondo dell’ecologismo e sta a indicare il salvataggio di alcuni aspetti del Pianeta che stanno scomparendo, come le specie viventi», ha spiegato a Pagella Politica Massimo Sandal, ex ricercatore di biologia molecolare che oggi scrive di scienza e di comunicazione scientifica per riviste come Le Scienze e Il Tascabile.

«Nei fatti la Terra, intesa come “ammasso di roccia che vaga nello Spazio”, ovviamente se la caverà, ma intesa come insieme di ecosistemi riceverà danni immensi».

Esistono poi delle specie che potrebbero trarre giovamento da un aumento medio delle temperature, o più in generale da eventuali catastrofi ambientali.

«In biologia si parla di disaster taxa: sono specie, per così dire, “approfittatrici” che nel momento in cui gli ecosistemi vengono alterati e disintegrati riescono a proliferare bene e a prendere il sopravvento», ha sottolineato Sandal.

Per esempio, con la terza estinzione di massa, avvenuta circa 250 milioni di anni fa alla fine del Permiano, presero il sopravvento alcuni organismi tra i cosiddetti “bentonici”, ossia quelle forme di vita che se ne stanno sui fondali, fissati su superficie solide.

Secondo studi recenti, per esempio, le meduse sarebbero una delle forme di vita a “beneficiare” di più dell’attuale riscaldamento globale, così come alcuni tipi di alghe, come sottolineato dal rapporto del 2018 dell’Ipcc.

L’estinzione degli esseri umani

L’implausibilità di una scomparsa totale della vita sulla Terra vale nello specifico anche per un’eventuale scomparsa della specie umana.

La risposta alla domanda “il cambiamento climatico causerà l’estinzione umana?” è infatti con ogni probabilità “no”, anche se, dalla scarsità di cibo alla diffusione di nuove malattie, i rischi per la nostra specie sono moltissimi – come ha sottolineato in un articolo di maggio 2019 su The Conversation Anders Sandberg, ricercatore dell’Università di Oxford.

«Da un punto di vista scientifico, non si può parlare di estinzione della specie umana causata dal riscaldamento globale, perché non sappiamo cosa succederà con certezza nei prossimi decenni. Un conto è un possibile olocausto nucleare, un altro è l’aumento medio delle temperature», ha spiegato Sandal.

«In ogni caso il modello sociale ed economico in cui viviamo dovrà cambiare: vuoi che cambi perché l’emergenza climatica avrà effetti irreversibili, vuoi che cambi perché decidiamo noi di evitare che questo possa avvenire. Le cose non potranno rimanere così».

Fare leva su questo aspetto è più efficace che ripetere “Salviamo la Terra”? Su questo aspetto, il dibattito è in corso. Vediamo perché.

Un’utile metafora?

In un citatissimo monologo intitolato Saving the Planet, il comico statunitense George Carlin (morto nel 2008) si prendeva gioco della retorica ambientalista, dicendo che con il riscaldamento globale «il Pianeta se la passerà bene: a essere fottuti saranno gli esseri umani».

Un concetto simile è stato espresso anche in un altro episodio famoso, quello dell’attore Charlton Heston, che nel 1995 lesse in diretta telefonica al programma tv The Rush Limbaugh Show una versione editata di un capitolo del libro Jurassic Park di Michael Crichton.

«Pensate di poter distruggere il Pianeta? È una vanità che dà alla testa», disse Heston. «Prima o poi, quando la Terra sarà inospitale, la vita si diffonderà di nuovo. L’evoluzione ricomincerà di nuovo».

Entrambi questi commenti, come abbiamo visto, sono in un senso strettamente scientifico condivisi anche da una buona parte della comunità scientifica.

«A costo di ripetere l’ovvio: non si tratta di “Salvare il pianeta”, ma la qualità della vita del numero più grande possibile di esseri umani – inclusi i nostri figli e nipoti – e di tenere in piedi una qualche forma di civiltà. Il pianeta se la cava da solo, tranquilli», ha scritto su Twitter il 19 settembre 2019 l’astrofisico e divulgatore scientifico Amedeo Balbi.

Ma quanto è utile, a fini comunicativi, fare leva sulla possibile morte della Terra per mobilitare le persone contro il riscaldamento globale, come ha fatto Zingaretti?

«“La Terra muore” è una metafora: sulla sua utilità bisogna partire dal presupposto che i messaggi non hanno su tutti lo stesso effetto», ha spiegato Caserini. «Trent’anni di comunicazione sulla scienza del clima ci dicono che magari per delle persone, penso al maschio, adulto, cinquantenne, “Salviamo il Pianeta” non ha un effetto, su ragazzi di 18 anni è una cosa diversa».

Secondo Sandal, invece, «dire che “Il Pianeta è in pericolo” può essere verosimile da un punto di vista metaforico, ma secondo me non è un messaggio estremamente utile. Il rischio è quello di dire: “Vabbè, sono la Terra e gli animali a rischiare di più, a me che cosa importa?”. È una metafora che ha un’utilità limitata, ha più senso premere a livello mediatico sul fatto che nel breve periodo a morire rischia di essere il modello sociale ed economico in cui viviamo».

In questo dibattito, si ripropone su un piano più generale una questione analizzata da tempo all’interno della comunicazione scientifica: come si è chiesto un articolo pubblicato da Vox a giugno 2019, è meglio descrivere il cambiamento climatico come un fenomeno catastrofico per il Pianeta o come una minaccia esistenziale per lo più per la nostra specie?

La risposta potrebbe essere entrambe le opzioni.

Da un lato, c’è chi come David Wallace-Wells (autore nel 2019 del fortunato libro The Uninhabitable Earth: Life After Warming, non ancora pubblicato in italiano) sostiene che il panico e la paura del riscaldamento globale «potrebbero essere l’unica cosa in grado di salvarci». Parole che riecheggiano quelle dell’attivista Greta Thunberg, che al World Economic Forum di Davos di gennaio 2019 aveva detto ai leader mondiali: «Non voglio la vostra speranza, voglio il vostro panico».

Dall’altro lato, c’è chi sostiene che il fatalismo, legato a una inevitabile distruzione della vita sul Pianeta, possa condurre all’immobilismo, e non all’azione.

Uno studio di maggio 2019, pubblicato su Frontiers in Communication, è giunto alla conclusione che “speranza” e “dubbio” debbano essere entrambi due elementi centrali nella comunicazione dell’emergenza climatica, se proposti in maniera costruttiva.

In conclusione

Un messaggio che si sente spesso ripetere a sostegno della lotta ai cambiamenti climatici è che bisogna salvare il Pianeta: che «se la Terra muore non c’è più posto per nessuno», come ha scritto su Facebook il segretario del Pd Zingaretti.

Da un punto di vista strettamente scientifico, non è vero che il riscaldamento globale possa cancellare la vita sul nostro Pianeta, sia quella animale in generale, che quella umana.

È vero però che i tassi di estinzione stanno aumentando sempre di più, e che l’emergenza climatica è innanzitutto una sfida per il nostro modello sociale ed economico.

Su quale dei due aspetti bisogna focalizzarsi per fare divulgazione scientifica, e responsabilizzare i lettori (o gli elettori all’azione)? Da un punto di vista comunicativo, c’è chi sostiene che la morte della Terra possa essere un’utile metafora, mentre secondo alcuni rischia di avere un’efficacia limitata.

In conclusione, entrambi gli aspetti sembrano necessari: descrivere l’emergenza climatica solo come una catastrofe per il Pianeta è un’operazione monca per mobilitare le persone, se non accompagnata dal presupposto che è anche – se non soprattutto – una minaccia esistenziale per noi.