La “dieta mediterranea” è un’invenzione americana

Da anni la difendono Lega e Fratelli d’Italia da ipotetici attacchi dell’Ue, ma a dir la verità la sua origine non è molto nostrana
Pagella Politica
Da anni una delle battaglie della destra italiana è la difesa della cosiddetta “dieta mediterranea”, che secondo vari esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia sarebbe sotto attacco da parte dell’Unione europea e delle multinazionali straniere. Di recente questa posizione è stata ribadita in varie occasioni dal governo guidato da Giorgia Meloni. 

«Faremo tutte le azioni promozionali per spiegare a ogni livello quali sono i benefici della dieta mediterranea, nella sua complessità, e dei prodotti della nostra nazione», ha per esempio dichiarato di recente il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia), criticando la scelta dell’Irlanda, avallata dall’Ue, di etichettare i prodotti alcolici con messaggi sui rischi per la salute. 

Anche il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini (Lega), negli ultimi mesi così come in passato, ha fatto spesso dichiarazioni a difesa di prodotti come la carne e gli insaccati italiani, il vino, i formaggi e l’olio, che a detta sua sarebbero al centro della dieta mediterranea, quella seguita dal nostro Paese.
Il messaggio che passa è quello di un Paese, l’Italia, in cui da sempre si è seguita per tradizione una dieta salutare basata su una lunga serie di prodotti tipici oggi da tutelare. Questa tesi, però, non è così solida come può sembrare a prima vista. «“Gli italiani si sono sempre nutriti seguendo i principi di quella che oggi chiamiamo ‘dieta mediterranea’”» è una delle «verità inconfutabili» della cucina italiana, anche se in realtà è «vero proprio il contrario: “Gli italiani non hanno mai seguito la dieta mediterranea”», ha scritto Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma, nel libro Denominazione di origine inventata (Mondadori, 2020).

Si fa presto a dire “dieta mediterranea”

La prima cosa su cui bisogna fare chiarezza è il significato stesso di “dieta mediterranea”. La Treccani la definisce un «regime alimentare praticato, con sensibili varianti, nei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo». Dunque parlare di un’unica dieta mediterranea, senza distinguere da Paese a Paese, sembra già una forzatura. Ma andiamo avanti. Secondo l’enciclopedia, la dieta mediterranea «comporta un consumo significativo di prodotti cerealicoli (pane, pasta) e di prodotti ortofrutticoli, affiancato da un consumo moderato di legumi e pesce e di vino rosso», con l’olio di oliva come condimento di base e una «riduzione di grassi alimentari». Prodotti come la carne, gli affettati e i formaggi – spesso al centro dei discorsi dei politici – già non sembrano integrarsi bene con queste indicazioni (ne parleremo meglio più avanti).

Se si va indietro nel tempo, si scopre poi che il concetto di “dieta mediterranea” non è stato teorizzato da ricercatori italiani o europei, bensì da studiosi statunitensi. Durante gli anni Cinquanta l’epidemiologo Ancel e la moglie Margaret Keys si chiesero perché una popolazione come quella statunitense, con una nutrizione più abbondante di quella di altri Paesi, avesse più patologie cardiovascolari rispetto a popolazioni sottonutrite. Studiando le pratiche alimentari di alcuni Paesi lungo il Mediterraneo, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, i Keys pubblicarono una ricerca, intitolata The seven countries study, in cui teorizzarono, numeri alla mano, che un minor consumo di grassi saturi riduceva il rischio di sviluppare una serie di patologie. 

Nei decenni successivi l’intuizione dei Keys è stata studiata e approfondita da centinaia di ricercatori nel mondo. Oggi, da un lato, c’è chi critica il metodo di ricerca utilizzato negli anni Cinquanta, accusando i Keys di aver per esempio omesso alcuni dati che avrebbero potuto indebolire la loro teoria e di non aver trovato veri e propri legami di causa-effetto, ma solo correlazioni. Dall’altro lato, sono state comunque pubblicate molte ricerche che mostrano come effettivamente seguire un certo regime alimentare – quello tratteggiato sopra dalla definizione della Treccani – faccia bene alla salute. 

Qui è interessante notare però come nel corso del tempo si siano sviluppate tante versioni della “dieta mediterranea”. Alcuni ricercatori ne parlano utilizzando descrizioni generali, altri facendo riferimento ai dosaggi di singoli alimenti, altri ancora sfruttando la cosiddetta “piramide alimentare”, dove gli alimenti da consumare con più frequenza sono messi alla base (Immagine 1).
Immagine 1. Una versione della piramide alimentare della dieta mediterranea – Fonte: Fondazione Veronesi
Immagine 1. Una versione della piramide alimentare della dieta mediterranea – Fonte: Fondazione Veronesi
Parlare di una sola dieta mediterranea sembra dunque riduttivo. Al di là di questo, immaginarsi la dieta mediterranea come una riproduzione fedele delle abitudini alimentari seguite in un passato mitico lungo il Mediterraneo è sbagliato.

Un «ideale», non una fotografia

La dieta mediterranea, in tutte le varianti con cui la si può intendere, non rappresentava negli anni Cinquanta la realtà alimentare di nessuna parte geografica dell’Italia, un discorso che vale anche oggi. «La ricerca condotta dai coniugi Keys non aveva lo scopo di approfondire le origini di una specifica cucina, ma, molto più concretamente, di fornire alcune indicazioni dietetiche in grado di migliorare lo stato di salute generale di un individuo», spiega Grandi nel libro Denominazione di origine inventata. «I Keys si erano inventati ricette e di certo non avevano inteso riferirsi solo all’Italia, per quanto riguarda la provenienza degli ingredienti, ma, appunto, all’intero bacino del Mediterraneo. Alla fin fine la loro proposta era quella di sostituire i grassi animali con quelli vegetali e di mangiare più verdure e più pesce». 

Gli studi condotti da alcuni antropologi mostrano quali erano le reali condizioni alimentari delle popolazioni nel Sud Italia negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. «Il modello attuale della dieta mediterranea non corrisponde alla realtà storica di nessuna area geografica del Mediterraneo. Ancora nella prima metà del Novecento e fino agli anni Cinquanta le popolazioni meridionali presentavano un regime alimentare a base di pane di mais, patate, pomodori, peperoni, legumi, e per il condimento usavano il grasso di maiale», ha spiegato l’antropologo Vito Teti, che ha insegnato Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, in un approfondimento per la Treccani del 2015. 

«La “trinità mediterranea” (olio, grano e vino) – scrive ancora Teti – restava un’eredità pesante, che caratterizzava, però, la cucina dei ricchi e soltanto i sogni dei ceti popolari. Il condimento con il “grasso porcino” ebbe quasi dovunque una significativa e non breve fortuna. In molte zone interne e montane del Sud i contadini poveri consumavano grasso di maiale e mangiavano “erbe mal condite” ancora dopo la seconda guerra mondiale. In Abruzzo, Molise, Campania e Calabria ancora nei primi anni del Novecento venivano segnalati sia olii mal confezionati o avariati sia grasso di maiale rancido. La pasta, a eccezione di quella fatta in casa nelle feste, ancora all’inizio degli anni Cinquanta rappresentava un genere di lusso».

Dagli anni Sessanta in poi, ha sottolineato Testi, nelle regioni del Sud Italia è via via aumentato in modo significativo il consumo di prodotti come la carne, il pesce, i grassi e gli zuccheri, mentre era calato quello di pane, cereali, verdure e olio. Un allontanamento quindi dalla dieta mediterranea che, vista la sua origine, va dunque intesa più come un «ideale» da raggiungere a tavola, piuttosto che come una fotografia di quanto avvenuto nella cucina italiana nel corso della sua storia.

Il riconoscimento dell’Unesco

Nel 2010 l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) ha approvato l’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del “patrimonio culturale immateriale”, ossia quello che raccoglie le tradizioni e i prodotti non riconducibili solo a monumenti o collezioni di oggetti. 

Il sito ufficiale dell’Unesco specifica però che «la dieta mediterranea è molto più di un semplice elenco di alimenti o una tabella nutrizionale». «È uno stile di vita che comprende una serie di competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina e soprattutto la condivisione e il consumo di cibo», aggiunge l’agenzia dell’Onu.

Questa dieta, inoltre, avrebbe contribuito ​​alla «costruzione di un’identità che è ormai andata ben oltre i confini territoriali o alimentari», e dunque non è riconducibile a singoli Paesi, come l’Italia. Anzi: tra gli Stati a cui è stato esteso il riconoscimento della dieta mediterranea come patrimonio culturale c’è pure il Portogallo, che non affaccia sul mar Mediterraneo. Tra i Paesi coinvolti ci sono l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Marocco, Cipro e la Croazia. La maggior parte dei Paesi che affaccia sul Mediterraneo sembra dunque essere esclusa.

All’epoca non tutti gli esperti avevano commentato con favore la scelta dell’Unesco. «Sul piano dell’immagine e del ritorno commerciale capisco che possa essere una impresa positiva, ma sul piano culturale faccio fatica: la “dieta mediterranea” è un’espressione che dice tutto e dice niente», aveva per esempio dichiarato nel 2010 lo storico Massimo Montanari, studioso di storia medievale e uno dei massimi esperti in Italia di storia dell’alimentazione, autore di molti libri sul tema. «Se ci focalizziamo sul cibo e vogliamo definire che cos’è veramente la “dieta mediterranea” da un punto di vista tecnico, allora non capisco più, perché le diete mediterranee sono tante e tutte diverse. Sul piano storico e culturale non capisco che cosa ci possa stare dentro a questa etichetta, che, non dimentichiamolo, è un’invenzione americana».

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